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Channel: Chiesa Evangelica Metodista - Comunità di Verbania e Omegna

Culto Evangelico di domenica 11 settembre 2022 tenuto a Intra (con Omegna) e Luino

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Luca 10, 25-37

25 Ed ecco, un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova, dicendo: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?» 26Gesù gli disse: «Nella legge che cosa sta scritto? Come leggi?» 27 Egli rispose: «Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua, con tutta la forza tua, con tutta la mente tua, e il tuo prossimo come te stesso». 28 Gesù gli disse: «Hai risposto esattamente; fa’ questo, e vivrai». 29Ma egli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è il mio prossimo?» 30 Gesù rispose: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico, e s’imbatté nei briganti che lo spogliarono, lo ferirono e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. 31Per caso un sacerdote scendeva per quella stessa strada, ma quando lo vide, passò oltre dal lato opposto. 32Così pure un Levita, giunto in quel luogo, lo vide, ma passò oltre dal lato opposto. 33 Ma un Samaritano, che era in viaggio, giunse presso di lui e, vedendolo, ne ebbe pietà; 34 avvicinatosi, fasciò le sue piaghe versandovi sopra olio e vino, poi lo mise sulla propria cavalcatura, lo condusse a una locanda e si prese cura di lui. 35Il giorno dopo, presi due denari, li diede all’oste e gli disse: "Prenditi cura di lui; e tutto ciò che spenderai di più, te lo rimborserò al mio ritorno". 36 Quale di questi tre ti pare essere stato il prossimo di colui che s’imbatté nei ladroni?» 37 Quegli rispose: «Colui che gli usò misericordia». Gesù gli disse: «Va’, e fa’ anche tu la stessa cosa».

 

Che cosa devo fare? Chi è il mio prossimo? Domande, care sorelle e cari fratelli, che il dottore della legge pone a Gesù, ma che in fondo sono le domande che ci facciamo tutti, domande che si fanno e si sono fatti tutti i credenti – ebrei o cristiani, le stesse domande – da sempre.

Che cosa vuole Dio da me, che cosa devo fare per vivere una vita giusta e piena di senso? Così potremmo parafrasare l’espressione “per ereditare la vita eterna”. La vita eterna è l’esito di una vita terrena vissuta nell’ascolto e nell’obbedienza alla volontà di Dio.

Gesù risponde alla prima domanda del dottore della legge con un’altra domanda che lo rimanda alla Scrittura: che cosa leggi nella legge? - gli chiede - ovvero nella Torah, nell’insegnamento che Dio aveva dato al popolo attraverso Mosè.

E lui risponde con precisione citando i due comandamenti dell’amore per Dio e dell’amore per il prossimo – che si trovano rispettivamente nel libro del Deuteronomio e nel libro del Levitico, due versetti che già i rabbini del suo tempo mettevano insieme per riassumere tutta la Torah.

Gesù dunque fa rispondere il dottore della legge stesso alla domanda che aveva posta, e lui dà una risposta perfettamente in linea con le Scritture di Israele.  «Hai risposto esattamente; fa’ questo, e vivrai» reagisce Gesù.

È molto significativo il fatto che la risposta di Gesù – o la risposta del dottore della legge con cui Gesù concorda – sia una risposta profondamente ebraica, radicata nelle scritture ebraiche. È importante sottolinearlo, dopo che per secoli e secoli la fede ebraica è stata ritenuta dai cristiani inferiore o addirittura superata.

Quando ci si chiede che cosa dobbiamo fare per ereditare la vita eterna, cioè per vivere in obbedienza alla volontà di Dio una vita piena e giusta, la risposta del dottore della legge e di Gesù è la stessa. La risposta ebraica e quella cristiana sono la stessa risposta. Anzi: la risposta cristiana è ebraica!

Ed è una risposta fatta da due risposte. Ama Dio e ama il prossimo. La risposta in realtà sono due risposte e non possono che essere due, perché una risposta per un credente non basta. Se ami il prossimo e non ami Dio non sei un credente; ma anche se ami Dio e non ami il prossimo non sei un credente.

Sarebbe più facile avere una risposta soltanto: o solo Dio o solo il prossimo. E invece no, nella fede entri in una relazione triangolare, non in una relazione a due, ma in una relazione a tre: tu, Dio e il prossimo. E non puoi eliminarne uno senza eliminare anche l’altro.

Ecco dunque la risposta alla prima domanda “che cosa devo fare?”: ama Dio e ama il prossimo. È la risposta che il dottore della legge sapeva già, e infatti è lui stesso a rispondersi.

Gesù qui non porta una nuova dottrina, una nuova idea per ereditare la vita eterna, cioè per vivere una vita piena e giusta sotto lo sguardo di Dio. la risposta è sempre quella: ama Dio e ama il prossimo.

Anche noi la sappiamo già, la risposta, ma abbiamo bisogno ogni tanto di rifarci la domanda e di ricevere nuovamente la risposta: ama Dio e ama il prossimo, tutti e due, non solo uno.

Tienili insieme Dio e il prossimo, ama Dio, che ti perdona e ti salva e ama il prossimo, colui incontro al quale Dio ti invia nel mentre che ti perdona e ti salva.

Già, ma chi è il mio prossimo? C’è bisogno di concretizzare il comandamento, non basta rispondere un generico “tutti”. Risposta teologicamente perfetta, ma troppo teorica.

E qui Gesù risponde con una storia, una parabola. Gesù non dà definizioni – come forse il dottore della legge si aspetterebbe – ma racconta una storia. Una storia che parla di strada, di cammino e di un incontro, o meglio di due incontri mancati e di un incontro realizzato.

La risposta non la si trova a tavolino, la si trova per la strada. E per la strada passa chi passa, e non è per forza chi vorremmo o chi ci aspetteremmo noi.

Quella del samaritano è una parabola che spiazza, spiazza sopratutto il dottore della legge; possiamo provare a immaginarci la sua faccia, quando inizia a sentire le parole di Gesù e sente che il sacerdote e il levita non si fermano davanti all’uomo ferito e passano oltre.

E quando sente che invece un samaritano, cioè un membro di una popolazione rivale di Israele e pure giudicata eretica, lui sì, si ferma e presta al ferito le cure di cui aveva bisogno, avrà iniziato a sudare freddo!

La parabola di Gesù non vuole insegnare soltanto chi è il prossimo, ma anche che cos’è l’amore. Il samaritano vede l’uomo ferito e si ferma; l’amore inizia col vedere, ovvero col guardare in un certo modo. il testo dice che “ebbe pietà” di quell’uomo.

“Pietà” in italiano suona male, altri traducono “ebbe compassione”, comunque è un verbo che significa letteralmente “essere toccati fino alle viscere” e che in Luca ha spesso Dio e Gesù come soggetti. Lo sguardo del samaritano è dunque uno sguardo come quello di Dio!

Da questo sguardo nascono fatti concreti. Il samaritano “si prende cura” della vittima dell’aggressione in modo molto concreto, che gli costa anche qualcosa:

mette non solo il suo tempo, ma anche il suo olio, il suo vino, lo carica sulla sua cavalcatura, e poi ci mette anche il suo denaro per pagare la locanda. Amare costa! Costa tempo, fatica e denaro.

L’amore nasce da quello sguardo che vede un essere umano ferito e nulla più. L’amore non si chiede chi sia quell’uomo ferito, quale sia la sua storia e quali siano le sue idee: è un essere umano e basta. L’amore  è gratuito e non chiede nulla in contraccambio.

Quell’uomo ferito era samaritano come lui o ebreo? O forse pagano? Era protestante o cattolico? Cristiano o musulmano, o buddista, o ateo? Bianco o nero? Era ricco o povero? Di destra o di sinistra?

Era un essere umano, una persona, e questo è bastato al samaritano per averne pietà, com-passione, gli è bastato per partecipare al suo dolore e fare qualcosa.

 

Gesù non definisce l’amore, lo racconta. E non definisce nemmeno il prossimo, lo racconta.

Ma alla fine della parabola, Gesù spiazza ulteriormente il dottore della legge e noi con lui: non gli fa la morale della favola, dicendogli: “ecco hai visto, il tuo prossimo è quell’uomo ferito, è qualunque uomo ferito che incontri per caso, ecc. ecc. Che già sarebbe stata una bella lezione!

Gesù fa di nuovo una domanda al dottore della legge, rovesciando i termini della questione. Non chiede chi è il prossimo del samaritano, come forse ci aspetteremmo.

Chiede «Quale di questi tre ti pare essere stato il prossimo di colui che s’imbatté nei ladroni?» Chiede chi è stato il prossimo dell’uomo ferito.

Non chiede chi è il prossimo da aiutare, ma chi è il prossimo che ha aiutato. Rovescia la domanda del dottore della legge. Lui aveva chiesto: chi è il mio prossimo? Gesù chiede: di chi sei tu prossimo? Di chi tupuoi diventare prossimo, farti prossimo?

Insomma: prossimo non lo si è, lo si diventa. Lo si diventa per la strada, nell’incontro, quando il nostro sguardo e i nostri piedi non passano oltre chi si incontra, ma si fermano e incontrano veramente l’altra persona. Il sacerdote e il levita hanno scelto di non diventare prossimi dell’uomo ferito, il samaritano invece sì, e si è fermato.

La parola prossimo come sappiamo vuol dire “vicino”, è quindi un termine relazionale; è la relazione che fa diventare vicini e dunque prossimi l’uno dell’altro.

La “prossimità” si vive in una relazione; a volte si sarà nel ruolo dell’uomo ferito, a volte in quello del samaritano, la relazione non è mai a senso unico.

La parabola ci insegna dunque che il prossimo non lo si sceglie, ma lo si incontra, e quindi non corrisponde ai nostri criteri o ai nostri gusti, ma è colui/colei che Dio stesso sceglie per noi.

Il dottore della legge risponde alla domanda conclusiva di Gesù mostrando di aver seguito Gesù nel suo discorso e forse possiamo pensare che nel dialogo con Gesù egli abbia davvero cambiato prospettiva.

La sua risposta letteralmente suona così: “colui che fece misericordia con lui”: c’è dunque il verbo fare, c’è la misericordia e c’è la relazione= con lui.

Ecco gli ingredienti dell’amore del prossimo: la concretezza, perché l’amore nella Bibbia non è mai solo sentimento, ma è sempre fatti, azione.

La misericordia, cioè lo sguardo che nasce dalle viscere, guardare come Dio guarda e dunque vedere non un samaritano, un ebreo, un protestante, un cattolico, un bianco, un nero, un uomo, una donna, ecc. ma un essere umano.

E la relazione, senza la quale non c’è amore e non c’è prossimo, non si diventa prossimi.

L’ultima parola di Gesù è un invito (rivolto anche a noi) a “fare la stessa cosa”, cioè non più a cercare di definire chi sia il prossimo e chi no, ma ad andare a farsi prossimo di chi Dio ci manda incontro. E non è solo un invito, ma anche un invio: “va’ e fa la stessa cosa”.

Che cosa devo fare? Chi è il mio prossimo? Alla fine la risposta arriva: Vai!

Questo devi fare: devi andare e farti prossimo di chi incontri. Chi sia non importa, non lo scegli tu, perché è Dio che lo sceglie per te.

Tu vai, fermati e guardalo con misericordia. E il Signore ti darà – molto più spesso di quanto pensi – di essere tu guardato con misericordia dal tuo prossimo.

Marco Gisola


Culto di domenica 25 settembre, sedicesima dopo Pentecoste, tenuto a Intra con Omegna

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GALATI 5, 25 – 6, 10

 

Care amiche…care sorelle…cari amici…cari fratelli…oggi abbiamo letto una gran parte della lettera scritta ai Galati  dall’Apostolo Paolo al Cap. 5 e poi i primi 10 vv del Cap. 6, il motivo di questa lettura è dovuta al fatto che nella Parola del Signore (Bibbia), non vi è un altro brano simile che ci mostri…un contrasto molto netto tra lo stile di vita di un credente ancora sotto gli impulsi della natura umana e quindi “schiavo del peccato” (cfr. Gv 8:14) e un credente traboccante di Spirito Santo…il quale serve solo Dio (Rm 1:9). 

In questi versetti appena letti…Paolo rileva attentamente le 2 differenze presenti nella natura umana e afferma che lo Spirito di Dio e la natura umana peccaminosa…sono opposti e in netto contrasto tra di loro…tanto che per evidenziare la cosa…aggiunge una lista specifica di azioni che sono prodotte dalla natura umana ribelle e peccaminosa opponendola ad un’altra natura umana che invece fa risaltare il “Frutto dello Spirito” ed i suoi effetti.

Questo contrasto è evidente per il fatto che le azioni prodotte dal Frutto dello Spirito, fanno risaltare una condotta che pone Dio al centro della vita del credente ed è governata da un atteggiamento spirituale dove vi è uno spiccato carattere mite, simile a quello di Cristo…questo carattere mite…si sviluppa nei credenti nella misura in cui essi concedono allo Spirito Santo la libertà di cambiare la loro vita.

Per mezzo della Potenza di questo soffio vitale, i credenti sono in grado di combattere e vincere il potere del peccato, godendo i benefici di un’intima e personale comunione con Dio. In contrapposizione alle opere peccaminose della carne, il Frutto dello Spiritocomprende vari atteggiamenti da adottare verso quei fratelli incappati in azioni peccaminose, tanto che Paolo nella parte finale del v.1 scrive queste parole: “voi, che siete spirituali, rialzatelo con spirito di mansuetudine” nel senso che: “voi che siete guidati dallo Spirito dovete aiutarlo con dolcezza e umiltà a ritornare sulla strada giusta”, così che…quel credente…quei credenti che hanno commesso peccati gravi o violazioni morali allontanandosi dalle vie consigliate dal Cristo, vengano guidati a ristabilirsi spiritualmente per rinnovare al Cristo la loro devozione.

Questo cammino, non è privo di difficoltà, può anche essere necessario usare della disciplina, la quale deve essere esercitata con fermezza ma “con dolcezza e umiltà”, ricordandosi però che nessuno è immune da cadute, tra cui anche coloro che sono traboccanti di Spirito Santo.   

In questo cammino, bisogna che “portiamo i pesi gli uni degli altri” cioè “Aiutarsi nelle difficoltà e nei problemi, questo significa che dobbiamo caricarci le preoccupazioni, i problemi e le responsabilità gravose dei fratelli, dobbiamo assistere il fratello o i fratelli nella malattia, nel dolore o nelle difficoltà finanziarie, ma anche pregare intensamente e con costanza affinchè possano avere un aiuto tangibile e pratico, quindi…con queste parole, l'apostolo Paolo ci dice che nessuno deve essere lasciato solo, questo è anche il senso della Chiesa, della comunità dei credenti, una chiesa che si fa accogliente e solidale, piuttosto che giudice e carnefice…

La Chiesa esiste perché ha una missione da compiere…che è quella di essere un luogo di condivisione di ogni persona con le proprie caratteristiche e diversità, il luogo in cui può avvenire la riconciliazione nonostante le molteplici culture di pensiero e di spiritualità, cosicché quando la chiesa esclude i diversi o le persone, tradisce la sua vocazione, perché ha smesso di amare e di aiutare le persone nelle difficoltà e nei problemi. L’amore, invece, riconosce sempre l’altra come una sorella l’altro come un fratello con cui condividere la propria storia, la vita, le sofferenze, le gioie….e condividere i pesi degli altri è una qualità particolarmente gradita al Signore. (Sl 55:22 / 1° P 5:7) soprattutto…Paolo ci fa capire che: “finché ne abbiamo l’opportunità, facciamo del bene a tutti, ma specialmente ai fratelli in fede”. Questo versetto del testo…vuole indicare un programma di vita cristiana che è allo stesso tempo semplice ed esigente, così come tutta la Parola del Signore è sempre semplice ed esigente. È semplice perché è comprensibile ed è alla nostra portata. È esigente perché non ammette trattative o esitazioni. Questa parola ci parla con una stupefacente concretezza, tanto da dirci che “man mano che si presenta l'occasione, dobbiamo fare sempre del bene a tutti e, in primo luogo, ai nostri fratelli nella fede.”, nel sensoche…il tempo dev’essere colto…compreso e vissuto…e non sprecato, e oggi…questo è il cammino di ogni persona spirituale.

Al tempo dell’Apostolo Paolo vi erano degli oppositori della sua predicazione i quali dicevano:

Questa è solamente teoria! Non basta!...Perchè devi diventare…devi fare…”, ma ancora oggi…vi sono persone che continuano a dirlo…tanto che…anni fa…è uscito un libro (Libro nero delle chiese) dove sono elencati tutti i peccati commessi da tutte le Chiese, dalla loro nascita fino ai giorni nostri. È un libro dove si parla delle morti che le chiese hanno tante volte provocato, in effetti pochi giorni fa abbiamo ricordato alla bocchetta di Margosio (Oasi Zegna, Biella), il martirio di Fra Dolcino avvenuto nel 1307.

Ora…il Vangelo risponde a questa sfida in due parole.

La prima: il libro nero esiste, è Storia, ma è Storia anche l’opera di Gesù Cristo, il cui libro della vita ha coperto il libro della morte con la sua misericordia.

 

Secondo: “dobbiamo sempre fare del bene a tutti, principalmente ai fratelli nella fede”

 

Ebbene…fare del bene a tutti, principalmente ai fratelli nella fede…ma non è anche questa teoria!?

No….perchè con questa frase, si intende principalmente fare del bene ai fratelli nella fede e a coloro che, come descritto nel v.6 insegnano la Parola di Dio; quindi…Paolo ci dice che è anche nostro dovere…sostenere con supporto finanziario e materiale quanti servono il Signore con dedizione¹, come i Pastori, i missionari e quanti sono impegnati nel servizio cristiano². Rifiutare loro l’aiuto, avendone i mezzi…significa “seminare” egoismo e “raccogliere” la morte spirituale (vv. 7-9). Provvedere invece…il necessario a chi serve nel ministero della Parola, rientra nei doveri di fare il bene “ai fratelli nella fede”(v.10).    

Se li sosteniamo fedelmente…ovviamente secondo le nostre possibilità e per amore di Cristo…mieteremo a suo tempo (v.9) tra cui la vita eterna (v.8).

Ma…nel “facciamo del bene a tutti”…è anche sottointesa la Chiesa come casa…come famiglia che condivide il pane della parola di Dio, la chiesa come casa aperta che invita, che si fa trovare. Alla chiesa come luogo di riflessione, di fraternità, di libertà, Chiesa aperta a tutti e aperta per tutti. Nel dono di noi stessi…della nostra testimonianza…del nostro aiuto…della nostra fatica…del nostro denaro…del nostro tempo…del nostro affetto e del nostro ascolto.

25 Perciò, se ora viviamo per la potenza dello Spirito Santo, anche la nostra vita deve essere guidata dallo Spirito Santo facendo del bene a tutti

Nulla da togliere e nulla da aggiungere...

 

Lasciamo quindi che lo Spirito ci faccia camminare nella strada del bene di Dio. Sarà faticoso, ma Dio ci promette un raccolto che ci stupirà:

Vivremo…comprenderemo…proveremo…condivideremo…crederemo… faremo…vedremo e riceveremo insieme cose meravigliose…stupefacenti, che non ci possiamo nemmeno aspettare.

Oggi abbiamo compreso, almeno me lo auguro…che  “Aiutarsi nelle difficoltà e nei problemi, significa riconoscere sempre una donna, un uomo, come una sorella e un fratello e che non deve essere mai lasciato solo, anzi dobbiamo condividere la sua propria storia, la vita, le sofferenze, le gioie. 

Aiutarsi nelle difficoltà e nei problemisignifica anche Aiutare nelle difficoltà e nei problemiil mondo, cioè…chi muore a motivo della fame o di chi attraversa i mari per fuggire dalla guerra…da violenze sociali…politiche…o dalla povertà estrema…può significare partecipare alla lotta per la fame nel mondo…partecipare affinché siano riconosciuti i diritti delle persone costrette a lasciare tutti i loro affetti perché vittime di egoismo…odio e guerre. Se non ci saremo su questa scena, continueremo a ritenere difficile applicare la Parola di Dio, ma se ci saremo, avremo cominciato ad Aiutare nelle difficoltà e nei problemi gli altri alla gloria di Dio e per il bene di tutti.

 

AMEN!

¹ 1° Co 9:14 / 1° Ti 5:18  -  ² 1° Co 9:14 / 3° Gv 6-8  

Giampaolo Castelletti

Predicazione di domenica 2 ottobre 2022 su Deuteronomio 8,7-18 a cura di Marco Gisola

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7 ... il SIGNORE, il tuo Dio, sta per farti entrare in un buon paese: paese di corsi d’acqua, di laghi e di sorgenti che nascono nelle valli e nei monti; 8 paese di frumento, d’orzo, di vigne, di fichi e di melagrane; paese di ulivi e di miele; 9 paese dove mangerai del pane a volontà, dove non ti mancherà nulla; paese dove le pietre sono ferro e dai cui monti scaverai il rame. 10 Mangerai dunque e ti sazierai e benedirai il SIGNORE, il tuo Dio, a motivo del buon paese che ti avrà dato. 11 Guàrdati dal dimenticare il SIGNORE, il tuo Dio, al punto da non osservare i suoi comandamenti, le sue prescrizioni e le sue leggi che oggi ti do; 12 affinché non avvenga, dopo che avrai mangiato a sazietà e avrai costruito e abitato delle belle case, 13 dopo che avrai visto il tuo bestiame grosso e minuto moltiplicarsi, accrescersi il tuo argento, il tuo oro e abbondare ogni tua cosa, 14 che il tuo cuore si insuperbisca e tu dimentichi il SIGNORE, il tuo Dio, che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla casa di schiavitù; 15 che ti ha condotto attraverso questo grande e terribile deserto, pieno di serpenti velenosi e di scorpioni, terra arida, senz’acqua; che ha fatto sgorgare per te acqua dalla roccia durissima; 16 che nel deserto ti ha nutrito di manna che i tuoi padri non avevano mai conosciuta, per umiliarti e per provarti, per farti, alla fine, del bene. 17 Guàrdati dunque dal dire in cuor tuo: La mia forza e la potenza della mia mano mi hanno procurato queste ricchezze. 18 Ricòrdati del SIGNORE tuo Dio, poiché egli ti dà la forza per procurarti ricchezze, per confermare, come fa oggi, il patto che giurò ai tuoi padri.

 

Ringraziare oppure dimenticare. Due modi di vivere opposti, due alternative davanti a cui è posto Israele e noi con lui.

Il popolo d’Israele sta per entrare nella terra promessa, descritta come “un buon paese: paese di corsi d’acqua, di laghi e di sorgenti che nascono nelle valli e nei monti; paese di frumento, d’orzo, di vigne, di fichi e di melagrane; paese di ulivi e di miele; paese dove mangerai del pane a volontà, dove non ti mancherà nulla; […] Mangerai dunque e ti sazierai e benedirai il SIGNORE, il tuo Dio, a motivo del buon paese che ti avrà dato”.

Mangerai, ti sazierai e benedirai il Signore. Questa è la volontà di Dio, il progetto di Dio per Israele: mangiare, saziarsi e benedire il Signore, cioè ringraziarlo, vivere nella gratitudine.

Israele sarà capace di farlo? Sarà capace di benedire il Signore, cioè ringraziarlo per tutti i suoi doni, quando avrà la pancia piena?

Oppure dimenticherà chi è che gli ha dato tutto questo – e qui possiamo dirlo, letteralmente – ben di Dio? Dimenticherà che è Dio che gli ha dato questa terra e questi frutti? Dio conosce il suo popolo e sa che il rischio che esso lo dimentichi è molto alto.

E infatti lo ammonisce: “Guàrdati dunque dal dire in cuor tuo: La mia forza e la potenza della mia mano mi hanno procurato queste ricchezze”. Dimenticare Dio significa che Israele potrebbe affermare, e dunque pensare, questo, che è lui stesso l’artefice di tutto ciò che ha.

Dimenticare Dio vuol dire che a Dio si sostituisce “io”. Non più Dio: “Dio mi ha donato”, ma io: “io mi sono guadagnato /conquistato/ meritato”.

Dunque: ringraziare Dio, oppure dimenticare Dio e quindi inorgoglirsi, eliminare Dio dalla propria vita e sostituirlo con l’ “io”.

Queste sono le alternative davanti alle quali si trova Israele e davanti alla quale ci troviamo tutti noi: ringraziare o dimenticare, Dio o io.

Oggi nel calendario liturgico che segue il lezionario tedesco, seguito da “Un giorno una parola”, è la festa del ringraziamento per il raccolto (solo che purtroppo Un giorno Una parola non lo scrive…).

Una domenica in cui ci si dovrebbe fermare a ringraziare il Signore per tutti i doni che ci dà attraverso la terra, cioè tutti i frutti della terra, ed è dunque un riconoscimento che ciò che mangiamo e che viene ovviamente anche dal lavoro dell’essere umano, è originariamente dono di Dio, che ha creato tutto ciò.

E questo è anche il tempo chiamato “tempo per il creato” una iniziativa ecumenica che viene portata avanti ormai da diversi anni, da quando le chiese – forse un po’ in ritardo - hanno iniziato proprio a riconsiderare il fatto che il mondo è stato creato da Dio e dunque è suo e non è nostro, perché a noi lo ha affidato per coltivarlo e custodirlo e non consumarlo o distruggerlo.

Le chiese ortodosse celebrano il 1° settembre la festa della creazione, la chiesa cattolica il 4 ottobre ricorda Francesco di Assisi – che per loro è un santo, mentre per noi è un credente che è stato particolarmente sensibile alle creature come dono di Dio.

E in mezzo a queste due giornate in genere cade la festa del ringraziamento per il raccolto che è tipicamente protestante.

Solo che nella società dove molti – io per primo – non sanno fare l’orto e dove si comprano tutto l’anno verdure che sono fuori stagione e che vengono magari dall’altra parte del mondo con enormi costi ambientali per il trasporto, abbiamo perso un po’ questa sensibilità e dunque questa riconoscenza a Dio per i frutti della terra che sono un suo dono.

Il nostro brano di oggi del Deuteronomio ci richiama a questa gratitudine. Ma non lo fa per motivi ecologici (a quei tempi avevano tanti problemi ma non quello ambientale, come abbiamo noi oggi), ma per motivi teo-logici: non riconoscere che i frutti della terra sono dono di Dio, prima che frutto del proprio lavoro, porta a inorgoglirsi e a dimenticare Dio.

E se si dimentica Dio rimane solo l’ “io”, l’essere umano al centro dell’universo. Un errore, anzi un peccato di cui oggi tocchiamo con mano le conseguenze pratiche proprio anche sul piano ambientale.

C’è un altro aspetto di questo brano su cui vorrei fermarmi un momento.

In questo brano Dio promette a Israele non solo il necessario, ma promette abbondanza: mangerai a sazietà, avrai pane in abbondanza, parla del bestiame che si moltiplica e persino di oro e argento.

Ci potremmo chiedere: ma dov’è la sobrietà evangelica in questo brano? In effetti non c’è sobrietà, qui si parla piuttosto di abbondanza.

Da brani come questi è nata anche una teologia che viene chiamata “teologia della prosperità” e che in poche parole dice: più Dio mi benedice, più ho beni in abbondanza.

In pratica la ricchezza come segno della benedizione di Dio. E dunque se sono povero è perché non sono benedetto.

Una teologia pericolosa, perché rischia di giustificare le differenze tra ricchi e poveri e anzi di dare ai poveri la colpa della loro povertà. Mentre sappiamo che la colpa della estrema povertà dei poveri è della abnorme ricchezza dei ricchi.

Su questo direi due cose:

1. Dio vuole il nostro bene, vuole la nostra serenità, la nostra gioia e vuole anche il nostro bene dal punto di vista materiale.

Non dimentichiamoci che chi ascolta queste parole è un popolo che sta vagando nel deserto da quasi quarant’anni, un popolo che sta per entrare nella terra promessa ma che prima era schiavo.

Prima Israele era schiavo, e dunque non possedeva nulla e soprattutto non aveva la libertà. La terra promessa da Dio con tutti i suoi frutti e il benessere che Dio promette è segno e frutto di questa libertà. Uno schiavo non ha nulla;

Le persone libere invece hanno non solo la libertà, ma nell’ottica di Dio, hanno anche tutto ciò che serve loro per vivere bene, a partire dalla terra che possono lavorare.

Dio vuole, vorrebbe, che noi non solo viviamo ma viviamo bene. Dio non vuole che qualcuno viva di stenti. Dio vuole che il suo popolo sia libero e che - mentre prima gli mancava tutto – ora non gli manchi più nulla e dunque viva nella gioia.

Questo è il senso della promessa dell’abbondanza.

2. Ma c’è un secondo aspetto fondamentale: questo Dio lo promette a tutti i membri del popolo d’Israele. Non soltanto a qualcuno.

Tutti devono godere dei frutti della terra e della abbondanza dei frutti. Tutti devono stare bene. Possiamo anche dire che queste promesse rispecchiano un ideale, ma è l’ideale di Dio:

Tutti hanno la libertà, tutti hanno un pezzo di terra da lavorare e – se non dimenticano Dio – da questa terra avranno abbondanza.

Questa è la promessa di Dio per tutti. Non solo per qualcuno a scapito di altri.

Questa è la volontà di Dio per il suo popolo, per tutti i membri del suo popolo.

Questa volontà – basta leggere i libri dei profeti per constatarlo – il popolo non l’ha mai realizzata.

L’uguaglianza tra tutti i membri del popolo è rimasto un ideale, la volontà di Dio è rimasta inattuata, perché qualcuno – anche nell’antico Israele, come in tutti i popoli e in tutte le società – ha preso ciò che non gli spettava e lo ha tolto ad altri.

I profeti si scagliano molto duramente contro chi sfrutta i poveri, chi opprime, chi si arricchisce a scapito degli altri.

Accade nell’antico Israele esattamente quello che accade oggi - anzi che accade da sempre – a livello mondiale: ci sarebbe abbondanza per tutti, le risorse basterebbero perché tutta la popolazione mondiale, persino ora che siamo oltre sette miliardi, vivesse bene.

Ma qualcuno, una minoranza, si accaparra i beni della maggioranza. È così da sempre ed è così ancora oggi, quando una piccola parte della popolazione mondiale ha più ricchezza di tutto il resto degli abitanti del mondo.

Dio vuole il bene dei suoi figli e delle sue figlie, ma di tutti i suoi figli e di tutte le sue figlie. Non vuole il benessere di qualcuno e il malessere, anzi la miseria, di qualcun altro. La prosperità di qualcuno e la miseria di qualcun altro non è la volontà Dio ma anzi è il suo contrario.

Dio ci riempie di doni, il suo creato è meraviglioso e ricchissimo di meraviglie e di risorse. Dio invita il suo popolo, come fece con Adamo ed Eva, a godere dei frutti della terra, a trarne non solo nutrimento, ma anche gioia.

Ma “guardati – ci dice - dal dimenticare Dio al punto da trascurare i suoi comandamenti”, cioè la sua volontà. Guardati dal pensare: questo è mio, questo mi è dovuto, questo l’ho fatto io.

Nel rapporto col creato, nei rapporti economici, nel rapporto col prossimo in generale abbiamo due strade davanti a noi: ringraziare Dio o dimenticare Dio.

Dimenticare Dio vuol dire vivere come se ci fossi solo io, solo noi, solo le persone che mi stanno a cuore e porta allo sfruttamento sia del creato, sia del prossimo.

Essere grati, essere riconoscenti, significa invece riconoscere che la terra è per noi, ma non è nostra; che i doni di Dio sono anche per noi, ma non solo per noi, perché sono per tutti e che il bene degli uni non può significare privazione per altri.

Anche noi come l’antico Israele siamo stati liberati da Dio, che ci ha riempito di doni e ci invita a goderne nella gioia e nella gratitudine, ricordandoci che lui il creatore e il donatore, e che il suo dono è per tutti.

Il Signore ci aiuti a non dimenticarlo e a ringraziarlo ogni giorno che egli ci dà da vivere.

Predicazione di domenica 16 ottobre 2022 su Efesini 5,15-21 a cura di Marco Gisola

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15 Guardate dunque con diligenza a come vi comportate; non da stolti, ma da saggi; 16 ricuperando il tempo perché i giorni sono malvagi. 17 Perciò non agite con leggerezza, ma cercate di ben capire quale sia la volontà del Signore. 18 Non ubriacatevi! Il vino porta alla dissolutezza. Ma siate ricolmi di Spirito, 19 parlandovi con salmi, inni e cantici spirituali, cantando e salmeggiando con il vostro cuore al Signore; 20 ringraziando continuamente per ogni cosa Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo; 21 sottomettendovi gli uni agli altri nel timore di Cristo.

 

Recuperate il tempo, ci dice l’apostolo, perché i giorni sono malvagi. Un’espressione un po’ inconsueta “recuperare il tempo”, che può significare: usare bene il tempo, cogliere le occasioni, non lasciarsi scappare le opportunità.

Perché i giorni sono malvagi, aggiunge Paolo, e lo dice ai cristiani di Efeso, luogo dove lui stesso è probabilmente stato in prigione e dunque dove i cristiani non avevano vita facile, visto che mettevano in discussione gli idoli pagani.

Inoltre, il tempo è poco, perché i primi cristiani cedevano che il ritorno di Gesù fosse imminente, e quindi questo poco tempo è anche un tempo speciale, unico.

E a noi, che ci siamo invece abituati all’idea che il regno di Dio tardi e chissà quando verrà, fa bene ascoltare questa indicazione dell’apostolo che ci dice che il tempo che viviamo non è (solo) quello dei giorni e dei mesi che passano, ma il tempo che sta tra la prima venuta di Gesù nel mondo e il suo ritorno, è il tempo dell’attesa del Regno, di cui siamo chiamati a vivere frammenti qui ed ora.

E dunque in questo tempo unico e speciale: comportatevi non da stolti, ma da saggi.

Non come persone che vivono il loro tempo come un banale ripetersi di giorni, di settimane e di anni, ma come il tempo di Dio, un tempo speciale, che Dio ci dona per …

Per che cosa? L’apostolo da almeno tre indicazioni per vivere saggiamente questo tempo che ci è dato da Dio: la prima è “cercare di capire quale sia la volontà del Signore”; la seconda è la gratitudine; la terza è la sottomissione reciproca. Un programmino niente male...!

1. Cercare di capire quale sia la volontà di Dio è il primo lavoro di ogni cristiano, un lavoro che impegna tutta la vita, perché non è mai finito.

Questa è la saggezza secondo l’autore della lettera agli Efesini, la saggezza che si impara alla scuola di Gesù, cioè alla scuola della Parola.

“Cercate di capire” dice l’apostolo. E dove si cerca? Si cerca dove si è stati trovati. Il cristiano cerca perché è stato trovato, da Dio attraverso Gesù Cristo. Se non fossimo stati trovati da Dio non potremmo cercare la sua volontà.

E se Dio ci ha trovato attraverso suo figlio Gesù Cristo, possiamo soltanto cercare in Gesù Cristo.

Non cercare Gesù Cristo, Gesù non dobbiamo cercarlo perché è lui che ci ha trovati, ma cercare in Gesù la volontà di Dio, cercarla cioè nella sua Parola, dunque nella Bibbia.

Non dobbiamo cercare Gesù o Dio in noi stessi, dobbiamo piuttosto cercare noi stessi in lui. In lui troviamo, come in uno specchio, noi stessi, e ci vediamo come colpevoli che sono stati graziati, giudicati che sono stati perdonati, schiavi che sono stati liberati.

E ogni giorno dobbiamo ri-cercarci in lui, ogni giorno dobbiamo ri-cercare la volontà di Dio, perché la nostra piccolezza e la nostra fragilità ci portano a perdere ciò che troviamo.

Dobbiamo cercare anche per evitare di cadere nell’illusione di aver trovato una volta per tutte, di aver imparato già tutto. Il cristiano è discepolo non solo nel senso che segue Gesù, ma anche nel significato letterale di colui o colei che impara da Gesù.

Essere cristiani significa essere alla scuola di Gesù e della sua parola per tutta la vita.

Però, attenzione: non è che si continua a cercare perché non si trova mai. Al contrario, si continua a cercare perché si trova sempre!

Perché nella Parola di Dio si trova sempre la grazia di Dio che è antica e sempre nuova, e si trova sempre qualcosa di nuovo e di prezioso per imparare a vivere il proprio discepolato.

Ogni giorno si trova qualcosa, e ogni giorno si cerca qualcosa di nuovo, perché il tesoro non è mai scoperto del tutto. E soprattutto ogni giorno ci si accorge di essere stati di nuovo trovati dal Signore, con la sua parola di grazia e speranza.

Alla ricerca di questa saggezza appartiene anche l’esortazione a non ubriacarsi. La ragione è che il vino porta alla dissolutezza.

Io credo che questa esortazione non abbia soltanto un valore morale, ma che voglia dirci che il cristiano non deve perdere il controllo di sé e della realtà. Se ti ubriachi perdi il controllo e non sei più tu che guidi le tue scelte.

Ed è curioso che dopo il discorso sul vino venga il discorso sullo Spirito. Quasi a dire che la vita del cristiano deve essere condotta dallo Spirito e non dal vino, o meglio solo dallo Spirito e da nient’altro.

L’ubriacatura ti toglie lucidità e qui si potrebbe aprire il discorso sulle dipendenze di ogni genere, dall’alcol, al fumo alle droghe, che ti tolgono lucidità e tu non sei più padrone di te stesso, ti consegni e diventi schiavo di un padrone che poi fa ti di te quello che vuole.

Non fatelo, dice l’apostolo, consegnatevi soltanto allo Spirito per rimanere liberi e farvi guidare verso la saggezza di Cristo, e non al vino o ad altre sostanze per farvi guidare fuori dalla realtà.

Lo spirito di Dio invece non ti allontana dalla realtà, ma ti aiuta a continuare a cercare la volontà di Dio, anche quando i “giorni sono malvagi”, come dice l’apostolo.

Per opporsi al male che ci circonda, è necessario essere sobri e poter ascoltare la voce dello Spirito.

2. Lasciamo per ultimo il tema della gratitudine e vediamo questa esortazione: “Sottomettetevi gli uni agli altri”.

Calvino commentando questo versetto scriveva che “...non c’è nulla di più contrario allo spirito umano che il sottomettersi agli altri...”.

E in effetti non è un invito allettante quello che ci viene rivolto qui. Noi vorremmo, al contrario, essere padroni di noi stessi, altroché essere sottomessi agli altri!

Eppure proprio qui sta la rivoluzione portata dal cristianesimo, rivoluzione ancora largamente inattuata, perché largamente rifiutata, dai cristiani stessi.

L’evangelo scardina la logica del predominio e propone quella della sottomissione reciproca: “gli uni agli altri”. E proprio il fatto che la sottomissione è reciproca, esclude il predominio.

“Sottomettetevi gli uni agli altri nel timore di Cristo”, ovvero nella sottomissione di tutti a Cristo e alla sua volontà.

Se al di sopra di tutti c’è Cristo, al di sotto di lui non c’è nessun predominio. Dove Cristo è Signore, non ci sono altri signori e dunque si può essere liberamente servi gli uni degli altri.

Siamo chiamati a sotto-metterci, ovvero a metterci sotto, considerare l’altro al di sopra di noi; quando siamo davanti al prossimo dobbiamo mettere tra parentesi noi stessi, metterci sotto di lui, perché nel prossimo è Cristo stesso che ci viene incontro.

Tutt’altro che facile, ma è questo – e niente meno di questo - che ci chiede il Signore.

3. E infine la gratitudine. La gratitudine per il perdono che Dio ci offre in Cristo da cui nasce la vita nuova fatta di fiducia e di speranza, di libertà e di servizio, di amore e riconciliazione.

La gratitudine a Dio perché ci ha offerto la possibilità di vivere questa vita nuova piena di senso e di gioia.

Gratitudine non perché va tutto bene, ma perché anche quando va male, c’è una parola a cui aggrapparsi e che ci aiuta a guardare avanti e a guardare oltre ciò che non va nella nostra vita.

Tutti noi conosciamo persone che non hanno molti motivi per essere grati, e persone che hanno invece molti motivi per essere tristi o arrabbiati, o addirittura disperati.

Noi non possiamo restituire la salute a chi sta male o dare un lavoro a chi lo ha perso, ma possiamo condividere la parola che dona speranza e che crea comunione.

È ben diverso vivere un lutto o una malattia senza speranza e senza comunione, oppure con speranza e circondati dalla comunione delle sorelle e dei fratelli.

Questo è il senso delle parole: parlandovi con salmi, inni e cantici spirituali, cantando e salmeggiando con il vostro cuore al Signore.

La comunione che il Signore ci dona da vivere si esprime nel canto e nella preghiera gli uni per gli altri e gli uni con gli altri.

Comunione che non termina certo quando finisce il culto, ma anzi nel culto nasce e cresce.

Per tutto questo possiamo essere grati al Signore e dunque cercare di comportarci con saggezza, tornare sempre alla scuola della sua parola per cercare di capire quale sia la sua volontà del Signore,imparare a sottometterci - metterci sotto - gli uni agli altri, nell’amore e nella condivisione, e dunque vivere il grande dono della comunione e della speranza.

Questo è il tempo di Dio, l’occasione che il Signore ci dà, di vivere guidati dal suo Spirito e dalla sua parola. Siamo saggi, e non lasciamocelo sfuggire.

Predicazione di domenica 9 ottobre su Isaia 49,1-6 a cura di Marco Gisola

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 1 Isole, ascoltatemi! Popoli lontani, state attenti!Il SIGNORE mi ha chiamato fin dal seno materno, ha pronunciato il mio nome fin dal grembo di mia madre.2 Egli ha reso la mia bocca come una spada tagliente, mi ha nascosto nell’ombra della sua mano;ha fatto di me una freccia appuntita, mi ha riposto nella sua faretra 3 e mi ha detto: «Tu sei il mio servo, Israele, per mezzo di te io manifesterò la mia gloria».4 Ma io dicevo: «Invano ho faticato; inutilmente e per nulla ho consumato la mia forza; ma certo, il mio diritto è presso il SIGNORE, la mia ricompensa è presso il mio Dio».5 Ora parla il SIGNORE che mi ha formato fin dal grembo materno per essere suo servo, per ricondurgli Giacobbe, per raccogliere intorno a lui Israele; io sono onorato agli occhi del SIGNORE, il mio Dio è la mia forza.6 Egli dice: «È troppo poco che tu sia mio servo per rialzare le tribù di Giacobbe e per ricondurre gli scampati d’Israele; voglio fare di te la luce delle nazioni, lo strumento della mia salvezza fino alle estremità della terra».

 

“Ascoltatemi”, dice il servo del Signore. Ascoltatemi, vuol dire ascoltate Dio, ascoltate quello che Dio ha da dirvi.

Perché il servo del Signore è il servo della Parola del Signore, ciò che egli dice non è la sua parola, la sua volontà, la sua opinione, ma la parola e la volontà di Dio.

Chi è il servo del Signore, questo personaggio di cui parlano alcuni brani del profeta Isaia? Non è chiaro chi sia: è una persona singola, forse Isaia stesso? È il popolo di Israele? È il messia, atteso da Israele?

Lasciamo un attimo da parte questa domanda e concentriamoci sul compito del servo, più che sulla sua identità.

Egli parla e la sua parola è rivolta al popolo ebraico in esilio in Babilonia. Un popolo deportato, spogliato di tutto, della sua terra, del suo tempio, della sua unità: parte del popolo deportato, parte rimasto in patria, in una patria distrutta dai babilonesi.

Un popolo che ha perso speranza, rassegnato, che ha toccato il fondo. Che si chiede se Dio lo abbia abbandonato. A questo popolo Dio manda Isaia a dire parole di consolazione: “consolate, consolate il mio popolo”: inizia con queste parole il discorso del profeta al cap 40, poco prima di introdurre il personaggio del servo del Signore, inviato da Dio per ricondurre Israele a casa.

Il servo del Signore è stato scelto da Dio: fin dal seno materno, ha pronunciato il mio nome fin dal grembo di mia madre”.

È stato scelto, eletto, Dio lo rende suo servo, che non ha un significato negativo, ma esprime il fatto che il servo dice e fa la volontà di Dio, non la sua, come un servo non fa quello che vuole, ma fa quello che vuole il suo padrone.

Solo che quando qualcuno è servo di un altro essere umano ciò significa schiavitù, cioè annullamento della persona e sfruttamento, essere servo di Dio invece vuol dire libertà, il servo di Dio è il più libero degli esseri umani, perché deve rendere conto solo a Dio.

La vita del servo si identifica con il progetto di Dio. Il progetto di Dio diventa la sua vita. Dio sceglie e manda il suo servo al suo popolo esiliato, per annunciargli la liberazione.

Il servo ha il compito di parlare, per questo invita all’ascolto: ascoltate! Non ha altro compito che quello di parlare, di annunciare: Egli ha reso la mia bocca come una spada tagliente, mi ha nascosto nell’ombra della sua mano; ha fatto di me una freccia appuntita...

Si menzionano armi, ma non confondiamoci: il servo di Dio non è un combattente, non è un soldato, è un annunciatore, la cui unica arma è la Parola di Dio, ovvero la parola che Dio gli dà da dire, da annunciare.

La bocca è come una spada, come dice la lettera agli Ebrei (4,12): “la parola di Dio è vivente ed efficace, più affilata di qualunque spada a doppio taglio, e penetrante fino a dividere l’anima dallo spirito, le giunture dalle midolla”.

La parola di Dio entra dentro, agisce, trasforma. Ma è anche una freccia, che va lontano. Spade e frecce erano le armi rispettivamente per i combattimenti da vicino, corpo a corpo, e da lontano. La Parola di Dio va lontano, non ha limiti.

Deve manifestare la gloria di Dio non solo al e nel popolo d’Israele ma a tutti i popoli. Per questo dice “isole, ascoltatemi, popoli lontani state attenti”.

E come sarà manifestata la gloria di Dio? Nel fatto che Dio libererà Israele, facendolo tornare alla sua terra, ma prima di tutto facendolo tornare a sé, donando al suo popolo un nuovo inizio.

Dio – tramite il suo servo - va dal popolo, perché il popolo torni a lui. Lo va a cercare nel dramma dell’esilio per ridargli futuro e speranza.

La spada e la freccia sono immagini della Parola di Dio: la Parola di Dio vincerà la battaglia contro l’oppressione babilonese e contro la rassegnazione degli Israeliti.

Questo brano inizia insomma con una dichiarazione solenne e una promessa: Israele tornerà al suo Dio e alla sua terra e la gloria di Dio sarà così manifestata.

Ci stupisce quindi che il servo di Dio reagisca così: Ma io dicevo: «Invano ho faticato; inutilmente e per nulla ho consumato la mia forza”.

“Invano”: la parola che spesso ci tormenta. Invano ho faticato. Non serve a nulla, tutto è inutile.

Persino il servo del Signore ha un momento di sconforto, proprio come noi ne abbiamo, anche e proprio nell’impegno che mettiamo nella vita delle nostre chiese e nella società.

Invano: la tentazione di mollare, di pensare che non serva a nulla, che le cose non potranno che andare di male in peggio. Ma – grazie a Dio – c’è un ma: ma certo, il mio diritto è presso il SIGNORE, la mia ricompensa è presso il mio Dio».

Come se si fosse dimenticato per un attimo che c’è Dio dietro al suo compito, come se ricordasse di nuovo che non è il suo progetto che sta portando avanti, ma il progetto di Dio.

Il mio diritto e la mia ricompensa, potremmo dire il senso e lo scopo di ciò che sto facendo, sono presso Dio, sono in lui, non in me.

Si riprende dallo sconforto perché Ora parla il SIGNORE che mi ha formato fin dal grembo materno per essere suo servo, per ricondurgli Giacobbe, per raccogliere intorno a lui Israele;

Dio parla, o forse il servo lo ascolta di nuovo, perché Dio non ha smesso di parlare.

Come capita a noi, che pensiamo che Dio non parli, mentre siamo noi che abbiamo smesso di ascoltarlo. Dio parla e il servo ritrova senso e speranza: io sono onorato agli occhi del SIGNORE, il mio Dio è la mia forza.

Ridiventa consapevole che Dio è la sua forza, che non è la sua forza che conta, ma è la sua debolezza nelle mani di Dio che diventa forza.

Persino il servo del Signore ha un momento di sconforto, cade nella trappola dell’ “invano” e del “tutto è inutile”, ma poi ascolta di nuovo, perché Dio parla e ritrova la sua vocazione, ritorna alla fonte della sua vocazione e ritrova il progetto di Dio.

Dio parla e che cosa dice? Dio rilancia: Egli dice: «È troppo poco che tu sia mio servo per rialzare le tribù di Giacobbe e per ricondurre gli scampati d’Israele;

È troppo poco: ecco un’altra perla della parola profetica, della Parola di Dio: è troppo poco. Troppo poco ricondurre gli scampati di Israele, troppo poco riportare gli esiliati nella loro terra, ridare libertà agli schiavi, donare al suo popolo una nuova vita nella libertà.

Tutto ciò è troppo poco: voglio fare di te la luce delle nazioni, lo strumento della mia salvezza fino alle estremità della terra».

All’estremità della terra: forse vi ricorda il racconto dell’ascensione, quando Gesù manda i discepoli ad essergli testimoni fino all’estremità della terra.

Il servo – o forse Israele come popolo, sono possibili tutte e due le letture – deve diventare luce delle nazioni, strumento nelle mani di Dio per portare la salvezza fino all’estremità della terra.

Ma noi come cristiani non possiamo non vedere nella figura del servo del Signore la persona di Gesù, non possiamo cioè non leggere questo brano in senso messianico.

Per noi è lui il servo, chiamato fin dal grembo di sua madre, eletto prima della sua nascita per essere luce delle nazioni, salvatore dell’umanità.

Luce delle nazioni, non solo del suo popolo Israele, e non solo dei cristiani, ma dell’umanità intera.

La buona notizia infatti non è mai solo per te che l’ascolti, non è mai solo per noi che l’ascoltiamo. È anche per chi non l’ascolta, per chi non l’ha mai ascoltata e per chi non la vuole o non la può più ascoltare.

Il Signore annuncia a noi che siamo qui il suo perdono, ci dona consolazione e speranza per la nostra esistenza individuale e comunione per la nostra vita comunitaria, ci dona momenti di condivisione e di gioia.

Ma questo è troppo poco. Tutto ciò è troppo poco, l’orizzonte di Dio è più largo, Dio guarda sempre un po’ più in là di dove arriva il nostro sguardo.

È troppo poco che tu, chiesa metodista di Intra o di Omegna, ti occupi di annunciare la Parola a te stessa, che tu cerchi la tua consolazione, la tua speranza e la tua gioia nell’evangelo. È troppo poco! Perché la luce dell’evangelo non è solo per te, è per l’umanità.

Per questo il servo del Signore Gesù di Nazaret ha inviato i suoi discepoli ad essergli testimoni fino all’estremità della terra.

Per questo anche noi siamo chiamati ad annunciare l’evangelo, se non fino all’estremità della terra, almeno in ogni luogo dove egli ci pone.

Ma prima di tutto anche a noi il Signore dice: ascoltatemi!

Perché Dio parla e nella sua parola è la nostra forza, nella sua parola è la nostra consolazione quando cadiamo nel vortice dell’ “invano” e del tutto è inutile.

Ma non solo: nella sua parola è il riscatto, la speranza e la gioia per tutta l’umanità.

Meno di questo, per il Dio di Isaia, che ha mandato il suo figlio Gesù Cristo per essere strumento della sua salvezza fino alle estremità della terra, sarebbe troppo poco.

E dunque: ascoltiamolo! La nostra fede, la nostra gioia e il nostro amore per l’umano e per l’umanità possono solo nascere da questo ascolto.



Predicazione di Domenica 6 NOVEMBRE sul testo di Romani 13, 1 - 8 tenuta nel Tempio di Intra da Giampaolo Castelletti

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Romani 13 , 1 – 8

 

Ogni persona stia sottomessa alle autorità superiori; perché non vi è autorità se non da Dio; e le autorità che esistono, sono stabilite da Dio. Perciò chi resiste all’autorità si oppone all’ordine di Dio; quelli che vi si oppongono si attireranno addosso una condanna; infatti i magistrati non sono da temere per le opere buone, ma per le cattive.

Tu, non vuoi temere l’autorità? Fa’ il bene e avrai la sua approvazione, perché il magistrato è un ministro di Dio per il tuo bene; ma se fai il male, temi, perché egli non porta la spada invano; infatti è un ministro di Dio per infliggere una giusta punizione a chi fa il male. Perciò è necessario stare sottomessi, non soltanto per timore della punizione, ma anche per motivo di coscienza.

È anche per questa ragione che voi pagate le imposte, perché essi, che sono costantemente dediti a questa funzione, sono ministri di Dio. Rendete a ciascuno quel che gli è dovuto: l’imposta a chi è dovuta l’imposta, la tassa a chi la tassa; il timore a chi il timore; l’onore a chi l’onore

Non abbiate altro debito con nessuno, se non di amarvi gli uni gli altri; perché chi ama il prossimo ha adempiuto la legge.

 

All’inizio dell’epistola ai Romani…Paolo saluta i suoi interlocutori come fa in tutte le sue lettere…annuncia che sono loro donate “la grazia e la pace”.

Penso che noi possiamo domandarci, in tutta buona fede: dove si situa la grazia nella pagina, peraltro molto nota, che oggi abbiamo letto?

Già la prima affermazione è imbarazzante: “Ogni persona stia sottomessa alle autorità superiori”.

È imbarazzante per il tono…molto chiaro, troppo chiaro…un tono che non ammette discussioni…A pensarci, sembra quasi che l’Apostolo abbia messo nel suo discorso più incertezze e sfumature quando spiegava la giustificazione per fede, che non qui, quando impone come regola assoluta di “stare sottomessi alle autorità”fare questo è bene, non farlo, opporsi alle autorità, è male! Ma è davvero sempre così?

E l’imbarazzo cresce se pensiamo a quali erano le autorità a cui, secondo Paolo, “ogni persona deve stare sottomessa”!  Sono i principi, i governatori, i magistrati dell’Impero Romano, che con la forza delle loro legioni avevano ridotto il mondo ad un dominio da sfruttare e che, nell’esercizio di questo dominio, pur senza esserne stato l’inventore, aveva diffuso dalla Britannia alla Nubia e dall’Iberia al Caucaso la pratica della crocifissione, applicata di preferenza agli schiavi disobbedienti o rivoltosi…applicata anche allo stesso Gesù.

Cosa hanno potuto fare di una pagina così i nostri antenati valdesi quando uno Stato dai pieni poteri scatenava contro di loro la persecuzione?              O accettare in uno spirito di obbedienza rassegnata la morte e le catene scaraventate loro addosso dalle “autorità superiori”magari condendo il tutto con un “condimento dalla Prima epistola di Pietro”, dove è scritto: “Se soffrite perché avete agito bene e lo sopportate pazientemente, questa è una grazia davanti a Dio” (1 Pt 2,20)hanno fatto così i Valdesi di Calabria e sono stati tutti massacrati o costretti alla sconfessione; …oppure arrampicarsi sugli specchi per trovare di fronte a quanto Paolo afferma con tanta sicurezza, la scappatoia che consentisse loro di difendersi in buona coscienza, e provare a salvare la loro vita, i loro cari, le loro cose, così come hanno fatto, nel medesimo anno delle stragi di Calabria i Valdesi delle Valli, quando si sono francamente inventati che in realtà chi aveva mandato le soldataglie armate contro di loro non era stato proprio il Duca di Savoia loro legittimo signore, ma il Papa che non era il  loro legittimo signore…e così…hanno preso le armi in mano ed hanno imposto ad Emanuele Filiberto il cosiddetto “Trattato di Cavour” che garantiva la loro sopravvivenza.

In breve…c’è quasi da rimpiangere il buon vecchio Antico Testamento!

Perché lì almeno, i profeti non avevano problemi a denunciare nel nome della giustizia di Dio i re…i sacerdoti…i ricchi e i potenti come fecero Amos e Michea…e c’è da domandarsi, anche con una punta di malizia…che sorte avrebbe riservato a quei profeti il Paolo della pagina di oggi, che ha affermato in maniera molto chiara che “chi resiste all’autorità si oppone all’ordine voluto da Dio”?…

Allora, veramente, cosa fare davanti a questa pagina? Forse solo una cosa: riprenderla in mano e provare a rileggerla.

Non vi è autorità se non da Dio; e le autorità che esistono, sono stabilite da Dio”Ecco un primo piccolo barlume di luce: le autorità sono stabilite da Dio, dipendono da lui…è un limite importante al potere assoluto, perché questo vuol dire che le autorità riconosciute come tali nel mondo, non sono mai…esse stesse…“Dio”. Se pensiamo poi…a come certi augusti imperatori romani avessero la tendenza a considerarsi dei veri e propri dèi e rivendicassero per sé un sacerdozio apposito ed un culto obbligatorio per tutti i loro sudditi…qui c’è davvero qualche cosa a cui pensare…

Ma c’è ancora dell’altro, evocando proprio le parole che abbiamo ricordato prima: “chi resiste all’autorità si oppone all’ordine voluto da Dio”?…     

C’è un “ordine di Dio”? E di fatto qual è? Qui si pone un problema…

E poi però, ecco un’altra parola che ci va per traverso: “chi resiste all’autorità si oppone all’ordine voluto da Dio e si attirerà addosso una condanna”…

Quanti eretici…quanti uomini e donne sono stati condannati prendendo spunto da questa piccola frase e da altre simili a questa…Anche il piccolo bagliore che avevamo visto prima…qui sembra spegnersi…

In sostanza…siamo ancora “nella pancia del tunnel”…dobbiamo quindi continuare a rimanere all’interno del testo…e leggerlo un po’ come a tastoni…

I magistrati non sono da temere per le opere buone, ma per le cattive”…non li devi temere se fai il bene, ma se fai il male.

Se solo fosse vero! Sarebbe una bellezza! Ma…qualche volta capita?… È capitato mai?…Non è che qui l’Apostolo è diventato un povero idealista che vede il mondo come dovrebbe essere e non come invece è?

Ma ecco poi l’altra frase: “Non vuoi temere l’autorità? Fa’ il bene e avrai la sua approvazione, perché il magistrato è un ministro di Dio per il tuo bene”.

Oh, ci siamo! Eccolo finalmente “l’ordine voluto da Dio”…l’autorità che t’incoraggia al bene! Ed ecco allora perché “stare sottomessi”, non è soltanto qualcosa che devi fare “per timore della punizione”, ma anche per un “motivo di coscienza”! Si tratta di aderire al programma e all’ordine di Dio, che è “fare il bene”.

Ancora uno sguardo ai profeti. È scritto in Isaia 1, 16-17:“Smettete di fare il male imparate a fare il bene”. È il punto attorno a cui ruotano le critiche del profeta alle autorità del suo tempo. Ed è anche…come abbiamo ascoltato…il punto su cui Paolo fonda il suo appello alla sottomissione alle autorità…viste appunto come lo strumento necessario per fare il bene…

In questo modo…allora…evidenziando la loro ragion d’essere nel progetto di Dio…l’Apostolo ricorda davvero alle autorità anche il loro limite. Quello che conta non è che le autorità facciano la loro volontà qualunque sia, ma che esse facciano sì…che le persone facciano il bene e non il male. Per questo forse…Paolo ha rivolto un richiamo alla sottomissione alle autorità così netto e perentorio…come abbiamo detto senza sfumature: “State sottomessi alle autorità”senza se e senza ma, perché non è possibile opporre un contro-potere a coloro il cui incarico è promuovere il bene.

Paolo allora, non è un povero idealista…è come al solito estremamente concreto. Ed è per noi singolarmente attuale, e anzi ci interpella.

Non perché la sua situazione rassomiglia alla nostra…non siamo più ai tempi dell’Impero Romano…ma perché il punto di riferimento che ci dà in questa pagina può dare luce alla nostra ricerca, sovente affannosa, di punti di riferimento per “fare il bene”, per vivere bene come credenti e come cittadini.

Perché questa è la sfida che dobbiamo affrontare.

La prima cosa che oggi noi impariamo è che non ci è consentito…e Paolo ce lo ricorda proprio col suo chiarissimo “ogni persona stia sottomessa alle autorità superiori”, crederci come cristiani al di sopra o al di fuori dei poteri politici e civili come fanno i Testimoni di Geova, ma anche di non pochi esponenti di chiese evangelicali dicendo: “Gesù è la sola autorità, l’evangelo è l’unica legge, lo Spirito Santo è la sola guida, e poco importano le pretese delle autorità di questo mondo corrotto e decaduto, che sta ormai per scomparire”…questanon è la posizione dell’Apostoloe non può essere la nostra…

Ma ci sono anche almeno altri tre aspetti della nostra attualità, su cui le venerabili parole di Romani 13 gettano una luce che è la benvenuta.

C’è di ben peggio della sottomissione alle autorità. C’è il potere di qualcuno che si è eretto in autorità al posto delle autorità istituite. Faccio un esempio: come si leggono i nostri versetti in tantissimi luoghi nel Sud, nel centro e nel Nord del nostro paese in cui dominano le mafie? A Roma e a Milano ormai interi quartieri sono controllati dalla ‘ndrangheta

Nei giorni di campagna elettorale sono riemersi, in un modo in cui forse non dovevano riemergere, i nomi di Falcone Borsellino…Chi erano costoro, e con loro tanti altri magistrati, giudici, ufficiali dei carabinieri e semplici agenti di polizia che sono caduti sotto i colpi della mafia, se non delle “autorità stabilite da Dio” per “fare il bene”, per lottare contro quel cancro criminale?

Non sottomettersi al potere mafioso e invece sottomettersi a quello dei magistrati, è ancora oggi in molte situazioni fare un atto di coraggio altrettanto grande di quello di chi, in un’altra epoca come Bonhoeffer si è opposto ad autorità inique.

Qui allora, la fermezza dell’apostolo Paolo nella “sottomissione alle autorità stabilite da Dio” che di primo acchito ce l’aveva fatto criticare, si rivela un monito chiaro e forte a stare dalla parte di chi “fa il bene”.

E ancora, sempre a partire da Romani 13un terzo e ultimo flash sulla nostra attualità. Avete fatto caso a quel che viene detto quasi alla fine del testo? “Rendete a ciascuno quel che gli è dovuto: l’imposta a chi è dovuta l’imposta, la tassa a chi la tassa”…

Di questi tempi…è dura! Ma è sempre stata dura…soprattutto in Italia dove c’è l’abitudine, da parte dei burocrati…di trattare i cittadini come sudditi.

Capite allora che non è davvero facile accettare quest’invito dell’Apostolo? Anche perché se poi io so che i miei soldi finiscono nelle tasche dei tanti “Onorevoli” di turno perché ci si paghino Suv o ostriche… in fin dei conti è proprio dura!…

E però, nonostante tutto, se vogliamo costruire uno Stato in cui pagare le imposte significhi sostenere le autorità incaricate di promuovere il bene di tutti, e che questo bene si chiami poi in concreto…

“ricerca scientifica…scuola pubblica…sanità…solidarietà verso i più deboli”…allora ha ragione Paolole imposte vanno pagate…è una “questione di coscienza”…

Per tornare al nostro primo punto sulle mafie…bisogna pagare l’imposta e non pagare il pizzo! So che è difficile…ma è meglio pagare l’imposta…perché così si costruisce uno Stato in cui nessuno debba più pagare il pizzo! È l’apostolo Paolo “versione cittadino di oggi”.

Vedete allora come valgono anche per noi queste parole sulla “sottomissione alle autorità stabilite” che non erano ieri e non sono certo oggi, le parole di un rivoluzionario, ma piuttosto, allora come adesso…sono per noi…un kit di sopravvivenza quotidiana e responsabile.

In conclusione…decisamente…vale la pena anche oggi continuare a leggere Romani 13.

 

AMEN


PREDICAZIONE SUL TESTO BIBLICO DI FILIPPESI 4, 4 – 7 TENUTA NEL TEMPIO DI INTRA DA Giampaolo Castelletti IL 18 DICEMBRE 2022

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4 Rallegratevi sempre nel Signore. Ripeto: rallegratevi. 5 La vostra mansuetudine sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino. 6 Non angustiatevi di nulla, ma in ogni cosa fate conoscere le vostre richieste a Dio in preghiere e suppliche, accompagnate da ringraziamenti. 7 E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù.

 

Care sorelle e cari fratelli, a dir la verità…di questi tempi c’è poco di cui essere allegri…visti tutti i vari cambiamenti che vi sono stati in questi ultimi mesi, dalle varie guerre sparse nel mondo che oltretutto sono anche la causa principale di quelle morti che avvengono in mare e nei tragitti terrestri da parte di coloro che scappano per avere una vita migliore senza governi tiranni o guerre fratricide…ci sono i vari cambiamenti climatici che causano problematiche non indifferenti…le varie rivolte contro governi totalitari e soprattutto vi sono i vari rincari dei prezzi…che fanno sì che in molte persone e anche in noi stessi…prevale l’ansia…la preoccupazione…ed il problema è che a Dio facciamo conoscere ben poco di  questo nostro stato d’animo ansioso e angustiato… ma lo facciamo pesare sugli altri. Ed è per questo motivo che siamo noti per tante cose, ma non certo per la nostra mansuetudine…e spesso vi sono persone che con la loro intelligenza cercano sempre di superare la pace di Dio, anzi… cercano di superare Dio… soprattutto per il motivo che i loro cuori e i loro pensieri non sono custoditi nel Figlio di Dio…Gesù il Cristo…anzi…non sono proprio custoditi…cosicchè…potremmo dire che il mondo in cui viviamo, lo percepiamo come un mondo che sta perdendo l’anima e la pace di Dio, tutto questo…fa sì che si diventa sempre più ansiosi…Sempre più tristi…Sempre meno allegri e sempre meno mansueti.

 

Ora…la parola apostolica che contrasta apertamente questa immensa gravità, quest’avversità insuperabile della nostra esistenza e della nostra situazione umana ci viene incontro con le parole dell’Apostolo Paolo che ci dice…“Rallegratevi sempre nel Signore!”

Qualcuno…visto i tempi difficoltosi…potrebbe dire: “facile a dirsi, ma difficile da realizzare”, anche perché verrebbe da pensare che l’apostolo Paolo abbia pronunciate queste parole in un momento in cui tutte le sue cose gli andassero bene, ma era veramente così? Guardiamo allora il contesto in cui queste parole sono state pronunciate e scritte…l’Apostolo le scrisse circa 2000 anni fa…e la situazione nella quale si trovava Paolo, mentre scrive queste righe alla sua amata chiesa di Filippi, è una situazione tutt’altro che allegra, Paolo è in un carcere romano dell’epoca, dal quale l’apostolo sarebbe uscito “o libero o ucciso”. All’epoca, non esisteva la carcerazione detentiva che c’è ai giorni nostri, anzi all’epoca di Paolo…la carcerazione era soltanto preventiva, cioè…in attesa della sentenza…che avrebbe potuto essere solamente una: “un’assoluzione” o “una condanna a morte”…eh…nonostante tutto questo…Paolo dice: “Rallegratevi sempre nel Signore. Ripeto: rallegratevi.”  Paolo, vista la sua situazione, avrebbe avuto ogni ragione del mondo di essere ansioso, angustiato, aggressivo…invece….nulla di tutto ciò…nulla!!…a tal punto che ci esorta dicendoci: “non angustiatevi di nulla. Ma in ogni cosa…pregate…pensate a Dio…parlate con Dio…vivete e rallegratevi in Dio.”

 Vedete!...Paolo…qui non ci indica di essere ansiosi…non ci indica di avere poca mansuetudine o poca gioia e poca pace, anzi…in questa lettera, Paolo…ci parla del perché essere gioiosi…

Ci annuncia perché dobbiamo essere mansueti…

Ci predica il perché della pace…che potremmo riassumerle in queste tre parole: “Gesù il Cristo è la fonte della gioia. L’esempio della mansuetudine. La sorgente della pace”.               

In effetti…Gesù…predicando dal monte degli ulivi…ci dice: “Non siate in ansia per la vostra vita, di che cosa mangerete o di che cosa berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete” (Matteo 6,25).

Vedete?In mezzo a questa ansia disperata, divampa la gioia, tanto che la gioia si apre un varco in maniera efficace perchè il Signore Gesù Cristo…il nato a Betlemme, il crocifisso, il risorto, il celebrato nei cieli e che ora regna per la nostra pace con Dio, deve essere il motivo della nostra gioia… “La gioia nel Signore”.                                                              Vedete?...Paolo ci fa capire…che qui non si tratta di una percezione o di una sensazione. Non si tratta di carattere, di ottimismo, di atteggiamento. Tutt’altro…Paolo ci scrive queste parole in un periodo difficile della sua vita, anzi difficilissimo, e da cui non sa se ne uscirà vivo, ma dentro a questo tempo, trova la gioia nel Signore. Non dice che la sofferenza è finita, ma riconosce una gioia nel Signore…in Cristo si trova a poter vedere Dio, a vedere se stesso e la sua situazione con una chiave di lettura che sono completamente diverse. Il male, la morte, il silenzio…ed improvvisamente…la vita nuova che non muore più. Davanti alla vita nuova, cioè davanti al Cristo risorto, il male non può più colpire, quindi…vittoria e trionfo.

E noi…sorelle e fratelli…come viviamo queste parole dell’Apostolo Paolo? Noi…che viviamo in un mondo in cui conta prima di ogni altra cosa come ci vestiamo, cosa mangiamo, cosa beviamo, come ci divertiamo…vedete…in pratica viviamo in un mondo che conta sulla propria forza…e il nostro mondo è particolarmente evoluto a tal punto che ci fa capire che la preghiera appartiene a un mondo arretrato…l’allegria fa parte di una umanità sviluppata...mentre la mansuetudine è considerata appartenente ad una umanità di perdenti. E nonostante che…viviamo in una parte del mondo particolarmente sviluppata, la maggior parte dell’umanità vive nell’ansia e nell’angustia…ciò nonostante…si deve sempre andare avanti…tirare avanti. Dobbiamo diventare sempre più forti, sempre più bravi, sempre più intelligenti e insuperabili… Facciamo tante cose, e le facciamo sempre meglio, a tal punto che poi non siamo più capaci di fermarci e salutarci. Siamo sempre più evoluti, e poi non siamo più capaci delle cose elementari come fermarci e sorridere…fermarci e parlare…fermarci e ringraziare. Sì!!...forse dobbiamo fermarci e riconoscere che siamo diventati così evoluti che ci sentiamo tutti professori, e poi…ci scopriamo analfabeti nelle cose elementari…come guardarci negli occhi e salutarci per nome. Siamo diventati operatori sociali e culturali…poi ci scopriamo poco propensi ad ascoltare. Siamo diventati pastori…anziani…diaconi…e poi siamo incapaci di renderci conto della presenza dell’altro, di riconoscere che il Signore è vicino. In queste parole sta tutta la ragione, anzi, tutta l’anima della parola apostolica: il Signore è vicino. Forse aveva ragione Giovanni Miegge quando scrisse nel lontano 1940: «La perdita delle virtù segue con qualche ritardo, ma segue fatalmente, la perdita della fede. È naturale che sia così, perché le virtù che sono sostenute soltanto dall’abitudine, dall’esempio o dall’opinione, sono virtù senz’anima». Queste parole di Miegge devono far riflettere e quindi capire che Gesù è l’anima della pace, della mansuetudine e della gioia. Se rimaniamo con Gesù Cristo, i nostri cuori e i nostri pensieri saranno custoditi…e la fede non verrà mai meno.

Si !!!...Gesù è la verità di Dio che viene ad illuminare la nostra reale condizione e quella  di tutte e tutti quanti che oggigiorno siamo fatalmente alle prese con le preoccupazioni e coi problemi della vita, anche perché una vita senza problemi non esiste…ed i problemi esigono attenzione…cura…e se non accettiamo d’avere anche noi…i nostri pesi, Gesù che nasce non se ne può far carico e non può venirci incontro…in sostanza…è soltanto se accettiamo di avere  le nostre angustie… che oggi…possiamo ascoltare come rivolto a noi l’invito dell’apostolo Paolo che ci dice e ti dice: “Non angustiatevi di nulla”…Sì, “non angustiatevi di nulla”…noi che pure siamo venuti qua nel Tempio con le nostre angustie…perché qui c’è Gesù o meglio qui c’è “il Signore”….Dio stesso…Dio in persona che “s’è fatto carne”, s’è fatto essere umano come noi, ha preso su di sé quello che tutti siamo…il nostro “essere donne e uomini” dalla nascita…che ci ha visto uscire da nostra madre…fare il primo respiro insieme al primo pianto senza averne coscienza né ricordo, fino alla morte che ci terrorizza lungo tutta la vita…e in mezzo…tra la nascita inconsapevole e la morte che impaurisce…le oscurità e le difficoltà che il nostro “essere donne e uomini” comporta e portiamo sempre con noi…davvero…“non angustiatevi di nulla”, perché questo fatto…che a Betlemme…Dio è diventato uno come noi…un essere umano fragile…tribolato…esposto alla tentazione…al dolore e alla morte…significa che…in Gesù…nella sua storia umana…è già accaduto quello che per noi deve accadere…tutte le pene sono già finite…già trasformate in risurrezione…                                     

Tutti i desideri…le aspirazioni…le brame e gli slanci…sono già arrivati alla meta…già esauditi e compiuti…rendendo completamente superato ed inutile il nostro preoccuparci.

E’ proprio così…care sorelle e cari fratelli…tutto è già stato fatto! Tutto è già accaduto! Questo è il segreto…il mistero del Natale…che oggi contempliamo con 7 giorni di anticipo…ma del resto…Gesù nasce ogni giorno…ogni ora…ogni momento in ogni cuore che si converte a lui…e gli si apre nella fede!

Possiamo davvero “non angustiarci”, perché Dio si è fatto uomo, e perciò si è angustiato lui…si è preoccupato lui per noi una volta per tutte! Davvero…sorelle e fratelli…“Non angustiamoci di nulla”…sarebbe ridicolo continuare a farlo…continuare a volerci aiutare da noi stessi…dopo che l’aiuto ci è già stato dato dal nostro Signore.                        

AMEN

 

Auguro a tutte e tutti un Buon Natale nel Signore

CIRCOLARE CHIESE EVANGELICHE METODISTE DI OMEGNA E INTRA: NATALE 2022

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L’angelo disse loro: «Non temete, perché io vi porto la buona notizia di una grande gioia che tutto il popolo avrà: “Oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è il Cristo, il Signore”. E questo vi servirà di segno: troverete un bambino avvolto in fasce e coricato in una mangiatoia»

(Luca 2,10-12)

 

L’evangelo viene dall’alto. Viene dal cielo, dalla voce dell’angelo, del messaggero inviato da Dio.

L’evangelo che viene dall’alto, dalla voce angelica, consiste nel fatto che “è nato per voi un Salvatore, che è il Cristo, il Signore”. É nato: è nato come nasce ogni neonato da che mondo è mondo, è nato come te e come tutti/e noi. Colui che incarna l’evangelo che viene dall’alto, da Dio, è venuto al mondo “dal basso” uscendo dall’utero di sua madre che lo ha partorito. Non scende trionfalmente dal cielo, ma nasce dal basso, da una giovane mamma, per di più in una situazione molto precaria, e viene deposto in una mangiatoria di una stalla di Betlemme.

Nasce dal basso, lui che è “Salvatore, Cristo e Signore”. È Salvatore dei miseri e degli ultimi, salvatore di tutti a partire da quelli che stanno più in basso. È Cristo, cioè il messia promesso dai profeti, è il compimento di una promessa antica che Dio mantiene, e per questo è degno di fiducia. È Signore, più Signore di Erode che, secondo il vangelo di Matteo, appena viene a sapere che è nato lo vuole immediatamente eliminare; più Signore di Cesare, dell’imperatore romano, il cui rappresentante lo farà crocifiggere. Più Signore di tutti gli altri signori di ieri e di oggi, perché è il Signore del Regno di Dio, del regno di pace e giustizia che lui inaugura.

Nasce così in basso che c’è bisogno che una voce dall’alto venga a dirci che è proprio lui il Salvatore, Cristo e Signore. Altrimenti nessuno lo crederebbe; e infatti molti non lo crederanno. Se non ci fosse una voce che ce lo viene a dire, anche noi non potremmo credere che il Salvatore, Cristo e Signore è nato.

Anzi: che è “nato per voi”. Colui che è nato come te e come me, è nato per me e per te, per noi; egli è nato, cioè è venuto nel mondo, Dio lo ha mandato per noi. Per noi è nato, per noi vivrà, per noi insegnerà e guarirà, perdonerà, rialzerà, darà una vita nuova a molte donne e uomini perché per loro e per noi è venuto nel mondo.

E questa è la grande gioia di cui parla l’angelo: la gioia sta nel fatto che è nato colui che farà tutte queste cose per noi, per amore verso di noi. Noi che stiamo qui in basso, come i pastori, a cui l’angelo dà il gioioso annuncio. Noi riceviamo l’annuncio della nascita del Salvatore, Cristo e Signore, la buona notizia, la gioia. Per ascoltare questo annuncio dobbiamo tendere l’orecchio alla voce che viene dall’alto; per incontrare il Salvatore, Cristo e Signore dobbiamo invece volgere gli occhi verso il basso, verso il “bambino avvolto in fasce e coricato in una mangiatoia” di cui parla l’angelo.

Orecchie verso l’alto, perché l’evangelo viene dall’alto; occhi verso il basso, perché è qui, nella mangiatoia, nella bassezza dell’umanità piccola e periferica che incontriamo il Salvatore, Cristo e Signore. E non solo a Natale: ogni giorno continuiamo ad incontrarlo nell’evangelo che viene dall’alto e nel prossimo che vive qui in basso, accanto a noi. Ogni giorno ci è data questa grande gioia iniziata la notte di Natale. Questa grande gioia nessuno ce la toglie, perché non viene da noi, ma ci è donata da Dio e ci è dato di riceverla ascoltando l’evangelo che viene dall’alto, che ce l’annuncia. Per noi è nato, a noi è annunciata questa grande gioia, che inizia la notte di Natale, ma non ha fine e ci accompagna ogni giorno della nostra vita.

 

Marco Gisola



PREDICAZIONE SUL TESTO BIBLICO DI MATTEO 2, 13 - 23 TENUTA NEL TEMPIO DI OMEGNA IL 25 DICEMBRE 2022

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Matteo  2 ,  13 - 23 

       

Dopo che (i magi) furono partiti, un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: “Alzati, prendi il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e restaci finché io non te lo dico, perché Erode sta cercando il bambino per farlo morire”. Egli dunque si alzò, prese di notte il bambino e sua madre e si ritirò in Egitto. Là rimase fino alla morte di Erode, affinché si adempisse quello che fu detto dal Signore per mezzo del profeta: “Fuori dall’Egitto chiamai mio figlio”.   

   Allora Erode, vedendosi beffato dai magi, si adirò moltissimo e mandò a uccidere tutti i maschi che erano in Betlemme e in tutto il suo territorio dall’età di due anni in giù, secondo il tempo del quale si era esattamente informato dai magi. Allora si adempì quello che era stato detto per bocca del profeta Geremia: “Un grido si è udito in Rama, un pianto e un lamento grande: Rachele piange i suoi figli e rifiuta di essere consolata, perché non sono più”.

   Dopo la morte di Erode, un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe, in Egitto, e gli disse: “Alzati, prendi il bambino e sua madre, e va’ nel paese d’Israele, perché sono morti coloro che cercavano di uccidere il bambino”. Egli, alzatosi, prese il bambino e sua madre, e rientrò nel paese d’Israele. Ma udito che in Giudea regnava Archelao al posto di Erode suo padre, ebbe paura di andare là e, avvertito in sogno, si ritirò nella regione della Galilea e venne ad abitare in una città detta Nazaret, affinché si adempisse quello che era stato detto dai profeti, che egli sarebbe stato chiamato “Nazareno”.          

 

 

La parola stessa “Natale” non ha più quasi nulla a che fare con la nascita avvenuta a Betlemme. Natale è diventato la festa non più tanto “del bambino Gesù”, ma “dei bambini”, in cui è bello che anche gli adulti tornino un po’ bambini...vi è la festa delle luci…degli addobbi…ma anche dei regali che non sono poi nemmeno una brutta cosa…vedete…Natale è diventato un soffio di poesia…anche se in genere non di una grande poesia che…ogni anno viene a dare un po’ di arte poetica alla tanta, sgangherata quotidianità della nostra vita…questo…in fondo non è un dramma, non è una situazione sconveniente contro cui puntare il dito, e men che meno l’occasione per rivendicare solo per noi cristiani il monopolio sul Natale come la nostra festa…ognuno…laico o agnostico che sia…ha il diritto di viversi come vuole il suo Natale.        Sapete che…in assenza di ogni indicazione biblica in merito…la data del 25 dicembre per celebrare la nascita di Cristo fu un vero e proprio “furto” che i cristiani  operarono ai danni di coloro che credevano negli antichi dèi, appropriandosi della grande festa pagana del Sole Vincitore, che proprio alla fine di dicembre torna a prolungare la sua permanenza in cielo, e così, dopo sei mesi di costante diminuzione, il giorno torna a crescere in lunghezza ai danni della notte, la paura del buio totale è esorcizzata, il sole vince e l'uomo assieme a lui. 

Insomma, l’attuale “paganizzazione” del Natale non è altro che il riappropriarsi del bottino di quell’antico furto cristiano…e forse è giusto così…perché…se alla fine…la nostra minorità numerica sempre più accentuata…significherà che l’essere cristiani non sarà più la conseguenza quasi inconsapevole di una tradizione familiare e culturale…ma il frutto di una decisione di fede personale…dovremo solo che essere contenti… avremo delle chiese meno piene e meno ricche…ma proprio per questo… probabilmente…“più chiese”... più povere come Gesù…che era povero…e più creature e servi dell’Evangelo…        

  C'è però un altro motivo…che mi sembra più fondato e reale…che deve preoccuparci oggi a Natale, ed è la realtà concreta del mondo in cui viviamo. Tutti…cristiani e agnostici, vorremmo che questi giorni di Natale fossero diversi da tutti gli altri giorni…che ci avvolgessero…un po’ come le sfere colorate dell’albero di Natale, in un’atmosfera di serenità e di pace. Ma non è così. Certo, come ogni anno, anche quest’anno sentiremo nell’aria il clima un po smielato e che però ci è caro delle festività: il carillon di Natale s’è messo in movimento, ci sono le luci, ci sono i dolci, si aprono i regali e siamo contenti se vediamo la gioia negli occhi e nel sorriso dei bambini e di tutte le persone che ci sono care, ma tutt'attorno a noi restano in soffocabili le voci orali e scritte che portano il fracasso e insieme il gemito degli avvenimenti della cronaca quotidiana: il caos della politica, le paure della crisi economica, l'assenza di futuro per i nostri figli e figlie, i tanti senza casa perché venuti fra noi in cerca di speranza da paesi lontani come la Nigeria, la Somalia, la Siria, l’Afghanistan, coloro che arrivano dall’Ucraina, gli sfollati di Ischia ed infine la spaventosa e ingiusta ordinarietà delle morti sul lavoro.

Vorremmo che almeno a Natale queste voci tacessero, vorremmo dimenticare per un po’ tante brutture, liberarci dal senso di inquietudine che tutto questo ci provoca, ma non è così…anche a metterci i tappi nelle orecchie, certe cose entrano dalle finestre e dai camini ben più veloci di Papà Natale…e una mano di nero va a incupire il brillio degli addobbi natalizi…e così, anziché sentirci…come vorremmo…tutti più bambini, ci sentiamo…come invece non vorremmo…tutti più piccoli e impotenti.     

A volte…forse possiamo far qualcosa per quello che ci tocca direttamente…possiamo fare la scelta opportuna come dire la parola che serve…dare il consiglio giusto…ma sui grandi eventi, quelli che fanno l’attualità e decidono della qualità della vita di tutte e tutti noi…non abbiamo presa…non possiamo far niente…siamo…appunto…troppo piccoli e  le cose ci passano sulla testa, perchè l’essenziale si decide altrove, ed è un essenziale che ci tocca la pelle e così…alla fine…il nostro Natale sembra fatalmente meno Natale…  

Forse vi stupirete se vi dico che non è così!

Che proprio perché la realtà del nostro mondo non possiamo afferrarla e trattenerla…e tanto meno la possiamo cambiare…per questo motivo…il nostro Natale 2022 trascorrerà come è giusto che scorra ogni Natale…come dal primo Natale.

Abbiamo riportato sopra dal  vangelo di Matteo, il racconto degli eventi che hanno fatto seguito alla nascita di Gesù…eh…nostro malgrado…ci siamo resi conto che questa storia non è stata solo poesia, delicatezza e gioia, ma risuona anche di violenze e di gemiti, schiamazzi e paure…come i telegiornali che siamo spesso tentati di non vedere perché ci fanno star male…ebbene…abbiamo visto il furore di Erode, ingannato dai magi…che a sua volta aveva tentato di ingannare…massacrare i neonati di Betlemme…la fuga in Egitto di Giuseppe e dei suoi…gli anni dell'esilio; e poi…dopo la morte di quel terribile re Erode…il ritorno nella terra di Giuda…e ancora la paura…che spinge Giuseppe…Maria e Gesù…a trasferirsi nella Galilea…perché al posto di Erode c’è sul trono il figlio Archelao, un pazzo sanguinario…peggiore di suo padre...

Quella partenza e quel ritorno di Giuseppe, Maria e Gesù si sono decisi nel segreto di un sogno, nell’intimità di una parola sussurrata dall'angelo di Dio…senza fare rumore. E cosa c’è di più inavvertibile…di più sottile e di più contestabile di una voce nel sonno?                                              

Tuttavia…la Bibbia…ci parla di quel sogno e ancora prima…di molti altri sognatori (Abramo, Giacobbe, Samuele, Davide, Isaia e gli altri profeti) a cui Dio s’è rivolto dolcemente, ma anche con una forza tale che si son messi in moto…hanno percorso la via che Egli indicava senza tenere conto di ciò che li colpiva o entusiasmava e terrorizzava il mondo attorno a loro. Hanno ignorato il mondo…quei sognatori…e spesso sono stati ignorati dal mondo…ma proprio in questo modo…con la loro obbedienza silenziosa a una parola appena mormorata…hanno cambiato il mondo!...Sì…il sogno di Giuseppe, il viaggio con sua moglie e il suo bambino, sono stati un “dettaglio”…un particolare secondario rispetto a ciò di cui si parlava in quel tempo…ma ad ogni Natale…noi cristiani ricordiamo la venuta al mondo di quel bambino che nelle braccia di sua madre andava verso l’Egitto nel buio della notte. E ci ritroveremo al culto di Natale per Gesù, e non per Erode! Perché Dio cambia la storia con i dettagli…agisce nei dettagli…da Abramo in poi è stata la sua scelta…ed è ancora la sua scelta.                                                            

Ci sono tanti eventi che riempiono le cronache e la storia di dettagli… colpiscono e emozionano…fanno felice o fanno disperata la pubblica opinione…ma se noi!…non cerchiamo Dio nei dettagli…rischiamo di passargli accanto senza trovarlo…e sempre a proposito di dettagli…     nessuno storico dell’antica Roma ha dedicato un rigo alla nascita e alla morte di Gesù, né alla sua vita…Svetonio…è l’unico storico che forse ci riporta il nome di Gesù…mentre racconta di alcuni disordini all’interno della comunità ebraica romana…lo fa in maniera sbagliata…volendo parlare degli ebrei convertitisi a “Cristo” e della loro rivalità con gli ebrei rimasti ebrei…parla dei sostenitori di “un certo Cresto”…ha sbagliato a scriverlo…quel nome…perché era un nome del tutto sconosciuto…e siamo già in pieno secondo secolo.

La vita e le vicende di quell'agitatore erano agli occhi dei Romani troppo poco importanti, non più di un trascurabile dettaglio della loro grande storia. E invece i loro storici ci hanno parlato a lungo di una folla di personaggi di cui oggi non parla più nessuno…ma per gli storici romani Gesù era insignificante anche perché apparteneva ad un popolo insignificante. Era solo un ebreo. Anche qui, davvero Dio agisce nei dettagli, ha scelto per sé un popolo che è sempre stato un “dettaglio” nella storia…non è mai stato un grande popolo Israele. Non è mai stato il più forte, né il più grande, né il più colto, e neanche il più promettente in fatto di “mercato religioso”…anche al tempo del massimo splendore…il tempio di Salomone avrebbe fatto una meschina figura di fronte ai grandi templi dell’Egitto, o ai templi della Grecia. Sì!...nella sua lunga storia…Israele è stato quasi sempre un piccolo popolo sottoposto a popoli ed imperi ben più grandi di lui.

Ma proprio lì…nel cuore di quel “popolo che era esso stesso un “dettaglio” del mondo…incastrato fra i grandi che facevano la storia, attraverso la violenza dei conflitti, delle minacce, degli esili, della dominazione straniera, Dio s’è fatto conoscere come una forza…una sicurezza…una fonte di pace…S’è manifestato con l’ostinazione e la tenacia di una candela che brilla nella notte…sappiamo che non c’è nulla di più fragile di una candela…eppure…non c’è nulla che…come una candela…ti possa far capire che cosa è davvero la notte…se accendi un faro, la notte scappa via e non sai più che cos’è per davvero, e che al tempo stesso ti possa anche far capire che la notte non è che la notte…proprio così, come una candela accesa nella notte che nulla più può spegnere…Dio ci si è oggi rivelato nel racconto di Matteo, e ci ha anche rivelato la nostra realtà di oggi.                                                                 Matteo avrebbe potuto censurare il ricordo della strage comandata da Erode. Invece, ha preferito fissare nella nostra memoria quella pagina nera della storia, farci ascoltare il grido del dolore innocente ed inerme di fronte a quella bestialità…opera di esseri umani. E noi non possiamo non renderci conto che…quei bambini massacrati a Betlemme appartengono al nostro quotidiano…fanno parte della stessa realtà di sangue e lacrime di cui fanno parte le ragazzine che…un giorno… all'improvviso…spariscono da casa e non le trovi più, o le trovi cadavere, vittime innocenti della ferocia umana…e con loro…tutte e tutti i violentati…abusati, devastati dalle guerre…gli annegati che toccano la nostra coscienza e ci fanno misurare la nostra impotenza…vedete…per le piccole vittime di ieri…e per quelle di oggi…l’evangelo non ci fornisce giustificazioni...non c’è giustificazione per le sofferenze ingiustificabili…ma apre delle vie.                                                   La 1ª è la via del diritto al lamento…al grido di dolore e anche di rabbia levato verso Dio…come “Rachele che piange i suoi figli, e non vuole essere consolata”…d’altronde…non c’è consolazione neanche da Dio…di fronte a certe cose…

  La 2ª via…è quella che ognuno di noi deve custodire…la memoria di ciò che…nel mare ribollente di violenza e di strage…tesse la trama di una luce che resta e non si spegne.

Così…il pianto disperato delle madri di Betlemme…è la piccola… struggente luce dell’amore…il dettaglio d’amore che illumina la notte della furia delle belve di Erode. Un dettaglio prezioso…che ci fa lacrimare e insieme anche sperare che...no...la violenza non avrà l'ultima parola…la violenza finirà…e resterà quel pianto che sarà consolato.

È la parola che…nell'Apocalisse…chiude l'intera Bibbia: “Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non ci sarà più la morte, né cordoglio, né grido, né dolore, perché le cose di prima sono passate” (Apocalisse 21,4).  

Oggi…celebriamo questo Natale come la festa di un Dio che si manifesta nei dettagli.

Festeggiamolo così…il Natale…e allora potrà insegnarci ancora molto.   

Ci insegnerà…ad esempio…che tutta la nostra vita è fatta di dettagli… l’attenzione accordata a qualcuno…un pensiero ascoltato oppure letto che continua a frullarci per la testa…una frase ricordata di una predicazione…perché a volte può capitare persino proprio questo…di ricordare una frase di una predicazione...un brano musicale che ci prova che l’essere umano è anche capace di creare meraviglie…il sorriso di uno sconosciuto per la via…oh…la domanda ingenua e profonda di un bambino...                               

“Alzati, prendi il bambino e sua madre e fuggi in Egitto.....Alzati, prendi il bambino e sua madre e torna in Israele” …                                               

Sì!...Natale è la festa in cui il dettaglio prende il posto che gli spetta, perché Dio si rivela nel dettaglio.

Una festa…in cui scopriamo che…se i grandi eventi e i grandi personaggi ricolmano di sé l’attualità…l’essenziale però si gioca altrove.

Valeva circa duemila anni fa…e vale anche per noi oggi: "una mano che si tende…una parola che si offre…un gesto di pace"...questi gesti di amore…sono ogni volta il dettaglio che fa vivere.

Amen

                                                   Giampaolo Castelletti 


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PREDICAZIONE DI DOMENICA 19 FEBBRAIO 2023 tenuta nel Tempio di OMEGNA

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Isaia 55,  6 – 12a

 

6 Cercate il SIGNORE, mentre lo si può trovare; invocatelo, mentre è vicino. 7 Lasci l'empio la sua via e l'uomo iniquo i suoi pensieri; si converta egli al SIGNORE che avrà pietà di lui, al nostro Dio che non si stanca di perdonare.
8 «Infatti i miei pensieri non sono i vostri pensieri, né le vostre vie sono le mie vie», dice il SIGNORE. 9 «Come i cieli sono alti al di sopra della terra, così sono le mie vie più alte delle vostre vie, e i miei pensieri più alti dei vostri pensieri. 10 Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver annaffiato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, affinché dia seme al seminatore e pane da mangiare, 11 così è della mia parola, uscita dalla mia bocca: essa non torna a me a vuoto, senza aver compiuto ciò che io voglio e condotto a buon fine ciò per cui l'ho mandata. 12 Sì, voi partirete con gioia e sarete ricondotti in pace;

 

“Poiché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, né le vostre vie sono le mie vie” v.8

 

Questo versetto 8, è di una straordinaria suggestione e molto incisivo, come è incisivo questo bellissimo libro di Isaia da cui oggi…al Cap. 55 ne abbiamo letto alcuni versetti.

Tema centrale di questo testo, è l’affermazione del ruolo decisivo della Parola di Dio, che è tutto quanto resta al popolo esiliato, anzi, la Parola è l’unica cosa che conta, perché è l’unica cosa che sussiste in eterno.

E questa è anche l’esperienza di tutto il popolo di Dio attraverso i secoli, la Parola di Dio è l’unico tesoro che ci permette di andare avanti anche ai giorni nostri, la Parola di un Dio che è sempre vicino agli esiliati e a noi e che ci dice: “cercate il Signore mentre lo si può trovare”, questa è l’esortazione rivolta all’epoca agli esiliati a Babilonia, perché non pensassero che loro erano in esilio e Dio invece se ne stava nella terra promessa. Questo ci fa capire che, Dio non è legato a una terra, ma è legato al popolo anche quando è in esilio, e Dio è vicino a tutti gli esiliati; quindi, è vicino anche a noi quando ci sentiamo lontani da Lui, abbandonati da Lui, esiliati appunto. Ma siamo sempre noi alla fine, che ci allontaniamo da Dio, a volte per stanchezza spirituale, per sfiducia, così che rinunciamo a cercarlo, ma Dio non si allontana mai da noi…dato che è il Dio “che non si stanca mai di perdonare”, quindi non abbandona mai il suo popolo, anche se talvolta segue vie che noi facciamo fatica a riconoscere, a decifrare, perché sono le Sue vie e non le nostre vie.

E il segno più forte di vicinanza che Dio offre al suo popolo è il dono continuo, inesauribile, della Sua Parola.

Nell’immagine agricola di questo brano, il valore della Parola divina, viene evidenziato al massimo, proprio perché essa, è paragonata alla realtà più desiderata e attesa in una terra assolata come è quella palestinese: “l’acqua”.

E come la pioggia o la neve, la Parola non resta nei cieli della fantasia, ma penetra nel terreno arido della storia, raggiungendone anche le pieghe più oscure. Dopo averci fecondato, essa, ritorna a Dio fatta carne e sangue, cioè fede, preghiera e amore dell’essere umano verso il suo Signore.

È un’immagine, dicevo, legata al mondo agricolo, un mondo nel quale noi che viviamo in una società urbana, facciamo fatica a riconoscerci; eppure, nonostante tutto, è un’immagine che tocca corde molto sensibili del nostro cuore, perché i nostri tempi sono spesso tempi di deserto dello spirito, che ci fanno desiderare, come la cerva del Salmo 42: 1, a quell’acqua che è la Parola di Dio, il principio stesso della sopravvivenza spirituale in questa steppa arida nella quale tante volte abbiamo l’impressione di vivere.

La Parola di Dio, è per noi qualcosa di cui abbiamo bisogno come dell’ossigeno per respirare, così come abbiamo bisogno del pane, un cibo che, per l’antico Israele, come per noi, era alla base del suo sostentamento, ma che, come disse Gesù, non era così importante per la sopravvivenza come invece lo è la Parola di Dio, così come ci viene descritta nel brano di Matteo 4, 1-4. Questo perché la Parola autentica di Dio non si limita a informare, a far conoscere la volontà del Signore, ma è anche operativa; non per nulla, il vocabolo ebraico dabar (Davàr) designa contemporaneamente “parola” e “atto”, “detto” ed “evento”. La Parola di Dio, dunque, produce vita, genera vita, feconda e fa germogliare come dice Isaia, e questo risultato, lo ottiene in primo luogo, imponendo, a chi la riceve, a guardarsi allo specchio, a mettersi a nudo…a lasciar cadere le maschere e le illusioni, a capire chi veramente si è.

“La Parola di Dio è vivente ed efficace”, dice Paolo nella lettera agli Ebrei, perché è spada affilata e penetrante, perché separa, perché giudica, perché distingue inesorabilmente il vero dal falso, perché ci dice la verità su noi stessi, perché rivela noi stessi a noi stessi.

Ecco perché ne abbiamo tanto bisogno, ne abbiamo bisogno come abbiamo bisogno del pane materiale.

Ne abbiamo bisogno della Parola, l’ho ripetuto ormai tante volte. Ma è davvero così?

Lo vediamo davvero intorno a noi questo bisogno disperato, questa fame, questa sete della Parola?

Ognuno di noi, in cuor suo, sa già la risposta. Direi che questa pioggia benefica che Dio continua, per sola grazia, a riversare quotidianamente su di noi, viene molto spesso, anche da coloro che hanno scelto di appartenere ad una chiesa, nella migliore delle ipotesi, accettata come “acqua fresca” insignificante, insipida, che scorre senza lasciar traccia; tanto è, che spesso,  notiamo che nei confronti della Parola vi è disattenzione e noia, quando non vi è un radicale rigetto.

Che cosa significa questo? Rappresenta una smentita della necessità della Parola? Rappresenta la conferma che l’uomo può vivere benissimo di solo pane?

Certamente no !

L’essere umano ha bisogno della Parola, ne ha un bisogno estremo.

Il problema, è che non sa di averne bisogno, pensa di avere bisogno di tutt’altro, di potersi sfamare solamente col pane del Fornaio, di potersi dissetare con l’acqua dei rubinetti o delle bottiglie.

E la Parola non può svolgere il suo compito se non le si offre un terreno pronto a riceverla, come ci ha spiegato Gesù nella parabola del seminatore (Lc 8, 4-15).

Che cosa significa terreno pronto, terreno disponibile a ricevere la Parola?

Può significare varie cose. C’è un passo molto suggestivo del Talmud ebraico che dice: “La parola di Dio è come l’acqua. Come l’acqua, essa discende dal cielo. Come l’acqua, rinfresca l’anima. Come l’acqua non si conserva in vasi d’oro o d’argento, ma nella povertà dei recipienti di terracotta, così la parola divina si conserva solo in chi rende sé stesso umile come un vaso di terracotta”.

Sì! per accogliere quest’acqua “che scaturisce in vita eterna”, dobbiamo avere un cuore simile a un vaso di terracotta. In pratica, ci viene proposto un atteggiamento che ai nostri giorni nel migliore dei casi è passato di moda, nel peggiore viene sbeffeggiato, ed è l'umiltà, oh se si vuole dirla in parole povere, è la semplicità, e “umiltà” significa anche, in molti casi, saper fare silenzio.

Perché allora, non tentare di creare nel deserto dell’esistenza quotidiana due piccole oasi di silenzio, una al mattino e l’altra alla sera?

In pratica 2 modesti orizzonti di silenzio in cui ascoltare la Parola di Dio che si rivolge a noi attraverso le parole umane della Scrittura, a tal proposito, ascoltiamo l’appello bellissimo di Dietrich Bonhoeffer: “Facciamo silenzio prima di ascoltare la Parola di Dio, perché i nostri pensieri sono già rivolti alla Parola. Facciamo silenzio dopo l’ascolto della Parola, perché questa ci parla ancora, vive e dimora in noi. Facciamo silenzio la mattina presto, perché Dio deve avere la prima parola. Facciamo silenzio prima di coricarci, perché l’ultima parola deve appartenere a Dio”.

Ma “umiltà”, significa anche lasciare che la Parola di Dio, operi in noi quella funzione enunciata nella lettera agli Ebrei, ma anche in tanti passi della Bibbia ebraica, quella di contestarci radicalmente. E a molti non piace essere contestati, non piace che si cerchi di renderci diversi, nuovi, ecco perché, spesso, la Parola di Dio è respinta, perché seguire la Parola di Dio porta alla croce ed è crocifissa, basti pensare a come sono finiti i primi testimoni della Parola di Dio dell’epoca di Gesù, Giovanni il battista; Gesù stesso, abbandonato da tutti o Paolo, ma perché tutto ciò? Perché la Parola di Dio non è amata, e perché Dio non è popolare, Dio è sempre in minoranza in mezzo agli dei ed agli idoli che vanno dallo Star System, dallo sport fino ai cantanti. Questa purtroppo è la situazione.

Ma dobbiamo domandarci, è proprio solo colpa dei destinatari della Parola o molta responsabilità non ricade anche sugli interpreti della Parola, sui Ministri di Culto, come il sottoscritto, che abbiamo la splendida e terribile responsabilità di trasmettere agli altri la Parola di Dio, così di permettere a questa pioggia di cadere, di distribuire questo pane della vita, di trasmettere anche una Parola buona, una Parola di fede, di speranza e di amore?                                                                                                         Perché vedete, è anche responsabilità dei Ministri di Culto di trasmettere questa Parola buona, la buona notizia, che sappiamo essere così infinitamente difficile da accogliere, perché spesso i pensieri della gente…non sono le vie e i pensieri di Dio!                 

E poi, diciamocelo chiaramente, senza una conversione alla Parola di Dio, non si va da nessuna parte, e per far ciò, si debbono lasciare le proprie vie, lasciare i propri pensieri, i propri piani e i propri progetti, perché vedete, cercare Dio, non è cercare di tirare Dio dentro le nostre vie e i nostri pensieri, ma di seguire le sue vie e i suoi progetti che troviamo nella sua Parola e credo che il problema sia, anche forse e soprattutto questo, che spesso si continua a preferire i discorsi mielosi e consolanti, piuttosto che il pensiero del Dio potente e alla spada della sua Parola, per il fatto che, noi esseri umani, istintivamente, scappiamo da una Parola che ci contesta e quindi, il più delle volte, cerchiamo di ignorarla; eppure io mi domando, anzi no, non userò formule retoriche, io sono certo che una predicazione che ci indica la croce, una predicazione, cioè, nella quale, la Parola di Dio, prevale sulle parole umane, questo tipo di predicazione è capace di riscuotere attenzione, di coinvolgere anche un uditorio religiosamente piuttosto tiepido, assai più di quanto possa farlo una predicazione che addomestica la Parola, che cerca di addolcirla, che trasforma in inefficace “acqua fresca”, la pioggia potente del Signore, sono altrettanto convinto, che la predicazione di una Parola inefficace, imbalsamata, risponde non solo alla ricerca di facili consensi da parte del predicatore, ma anche e forse soprattutto, al fatto che è il predicatore stesso, il primo a non volersi lasciar disturbare e scuotere dalla presenza di Dio.

Solo se cominceremo, noi predicatori, ad imparare a lasciar filtrare, quasi in una trasparenza luminosa, la Parola, che permane per sempre e che scende dall’eterno e dall’infinito di Dio, potremo far comprendere alle nostre sorelle e ai nostri fratelli che ci ascoltano in ricerca di Dio, che il pane di cui sono affamati, è la “Parola che proviene dalla bocca di Dio”.

AMEN


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 GIORNATA COMUNITARIA DELLE CHIESE METODISTE DEI LAGHI 

chiese metodiste di Intra, Luino ed Omegna 

domenica 30 aprile 2023 presso la Chiesa metodista di Intra ore 10,30 

Culto Unificato delle chiese di Intra, Omegna e Luino.

Il Culto sarà a cura della scuola domenicale di Luino; a seguire: Agape comunitaria e pomeriggio con il fratello Libero Ciuffreda, membro del Consiglio della FCEI 

Il fratello Libero Ciuffreda è membro della chiesa valdese di Chivasso e membro del Consiglio della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (FCEI). 

Nel pomeriggio, il fratello Libero Ciuffreda, ci parlerà dei progetti che la FCEI sta portando avanti con Mediterranean Hope e Medical Hope.                                                    Con lui parleremo di accoglienza dei profughi e dei corridoi umanitari a Lampedusa, Scicli e Bihać (BosniaErzegovina); contro il caporalato e a fianco dei braccianti a Rosarno; vicino a chi soffre ed è vittima della guerra in Ucraina e in Siria.

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1943. Sapremmo oggi avere quella sensibilità teologica?

 di Claudio Pasquet

 08 settembre 2023

Un video ricorda il Sinodo valdese che si svolse nei giorni dell'armistizio caratterizzato dall'"Ordine del giorno Subilia", una richiesta di peccato per le timidezze della chiesa di fronte al nazifascismo

In apertura dei lavori del Sinodo delle chiese valdesi e metodiste dello scorso agosto è stato trasmesso un video voluto dalla Tavola valdese, realizzato per raccontare l'importante Sinodo del 1943 che si svolse durante i giorni dell'armistizio con cui l'Italia sanciva la resa agli Alleati. In particolare il riferimento è al cosiddetto "ordine del giorno Subilia", dal nome del pastore Vittorio Subilia, fra i principali promotori. Un ordine del giorno che confessava i peccati di una chiesa troppo timida di fronte al regime fascista e che dopo ampia discussione venne ritirato per evitare dolorose spaccature. L'articolo che segue del pastore Claudio Pasquet ripercorre quelle vicende.

Un Sinodo che fa memoria di un altro, ottanta anni dopo. È quanto è successo a Torre Pellice proprio in apertura dei lavori sinodali che si sono svolti dal 20 al 25 agosto scorsi. Un bel video ci ha aiutato a ricordare quel tragico settembre del 1943 in cui la nostra chiesa si ritrovava nella sua massima assise, tra la guerra che sembrava dover continuare e le assolute incertezze del futuro.

In quel momento venne presentato alla discussione un atto che viene ricordato come ordine del giorno “Subilia”, in nome del pastore che ne ispirò le linee teologiche. Ma in realtà i suoi presentatori erano i membri della Commissione d’esame che, allora come oggi, ispira i lavori dell’assemblea. Il dibattito fu subito accesissimo tra quanti temevano di coinvolgere la chiesa in una querelle piena di incertezze per il futuro e coloro che chiedevano una maggior decisione nel confessare il peccato di una chiesa troppo timida verso il potere nazi-fascista.

Infatti si trattava proprio di una vera confessione di peccato che val la pena di esaminare da vicino. Innanzitutto le parole in cui il Sinodo «si umilia davanti a Dio di non aver saputo proclamare in ogni contingenza ed a costo di qualsiasi rischio il messaggio di Cristo il Signore in tutte le sue implicazioni». Rischio che da quel settembre seppero però correre molti, e molte, giovani valdesi abbracciando gli ideali della Resistenza, e in tanti lo fecero anche sulla base della loro fede.

Ma si tratta anche di un ordine del giorno profetico che, in tempi anteriori all’ecumenismo, afferma la sua «solidarietà di fede, di preghiera, di sofferenza e di combattimento con le Chiese in distretta per fedeltà a Cristo (...) si sente parte viva della Chiesa universale». La memoria va subito a quanti nelle Chiese tedesche, seppur in minoranza, avevano saputo opporsi alla follia nazista e a coloro che si apprestavano ovunque a combattere per opporvisi negli anni successivi. Infatti troviamo anche parole che parlano di una scelta «al di sopra di ogni barriera di nazione e di razza», e dire queste cose quando erano ancora in vigore le leggi razziali e nazionaliste significava una decisa scelta di campo.

Sapendo che tale ordine del giorno avrebbe provocato una spaccatura, i proponenti decisero, pur a malincuore, di ritirarlo. Sarebbe passato, magari con una risicata maggioranza? Nessuno può dirlo. Oggi non avremmo dubbi su come schierarci, ma credo sarebbe ingiusto pronunciare a posteriori inutili condanne su persone che, nell’incertezza e senza informazioni sull’evoluzione delle cose, non seppero dare un giudizio più netto.

Oggi il nostro Sinodo non ha trovato il tempo di discutere sull’argomento, ma ha voluto comunque ricordare… e in un tempo in cui gli italiani tendono a non imparare nulla dalla storia, non è poco. Mi resta una domanda: di fronte alle mille problematiche del mondo attuale, saremmo ancora capaci di scrivere un pronunciamento teologico di tale forza? Non parlo di valutazioni politiche, economiche, etiche o sociali, di quelle ne facciamo pure troppe, ma proprio della capacità di fare teologia partendo dal contesto, riaffermando la fede in Gesù Cristo, il Signore della storia che giudica anche le nostre incertezze.

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NOVITÀ ORARIO del CULTO

CHIESE di INTRA e OMEGNA

Le assemblee delle chiese di Omegna (1 ottobre) e Intra (8 ottobre) hanno deciso di spostare l’orario del culto in modo che il pastore possa, almeno due domeniche al mese e quando sarà necessario, tenere il culto sia a Omegna, sia a Intra. I nuovi orari saranno validi a partire dal mese di novembre, mentre per le rimanenti domeniche di ottobre rimangono validi i vecchi orari delle ore 10,00 ad Omegna e delle ore 10,30 a Intra.

Quindi:

A PARTIRE DAL MESE DI NOVEMBRE

IL CULTO A OMEGNA SI TERRÀ ALLE ORE 9,00

IL CULTO A INTRA SI TERRÀ ALLE ORE 11,00

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 "Non rendete a nessuno male per male […]. Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene."   (Romani 12,17.21)

Sto preparando questa circolare pochi giorni dopo l’attacco terroristico di Hamas nei confronti di Israele. Non sono certo in grado di fare analisi geo-politiche, né tanto meno storiche. Voglio però condividere la testimonianza che ho ascoltato molti anni fa da parte di un israeliano che faceva parte di una associazione composta sia da israeliani, sia da palestinesi, che avevano in comune un terribile dramma: erano tutti genitori che avevano perso i propri figli nel conflitto israelo-palestinese. Erano stati invitati a una serata pubblica un israeliano e un palestinese, entrambi membri di questa associazione; il palestinese non aveva purtroppo ottenuto il visto per venire in Italia e non aveva potuto partecipare. Era quindi presente soltanto l’israeliano, il cui figlio, che era un soldato, era stato ucciso dai palestinesi. Dopo la morte del figlio – raccontò – molti intorno a lui lo invitavano all’odio e alla vendetta. Quell’uomo scelse però un’altra strada; aveva riflettuto a lungo ed era giunto alla conclusione che nulla avrebbe potuto riportare in vita il proprio figlio, e che l’unica cosa che poteva fare era cercare di impegnarsi per evitare che la stessa tragedia accadesse in altre famiglie. Per suo figlio, che era morto, ormai non poteva fare più nulla; ciò che poteva fare per i figli, ancora vivi, degli altri israeliani (e anche dei palestinesi) era lavorare per la pace e la riconciliazione. Contribuì quindi a fondare questa associazione composta da genitori di entrambe le parti che avevano in comune il lutto per aver perso le creature che avevano messo al mondo. Questa associazione esiste tutt’ora e si chiama “Parents Circle – Families Forum” (Circolo dei genitori – Forum delle famiglie) e il suo sito web è in inglese, ebraico e arabo: https://www.theparentscircle.org/en                                           

Nella home page del loro sito è scritto: “Se avete perso un familiare a causa del conflitto e siete stanchi del ciclo infinito di perdite di vite umane, vorremmo avervi con noi. Insieme, continueremo a lavorare per prevenire ulteriori lutti, per creare dialogo, riconciliazione e pace”                                                   

La domanda che oggi tutti ci poniamo è se ora, dopo il terribile attacco del 7 ottobre, sia ancora possibile sognare una soluzione pacifica del conflitto, se sia ancora possibile perseguire la soluzione “due popoli – due Stati”. Ma del resto quale sarebbe l’alternativa? Forse una guerra senza fine?         

La radice da cui nasce la violenza è l’odio, e in questi decenni l’odio tra palestinesi e israeliani è stato da alcuni (da entrambe le parti) volontariamente coltivato, ed è cresciuto a dismisura.   

Ma non da tutti è stato coltivato l’odio: la testimonianza di quel padre da me ascoltato molti anni fa mi fa sperare che – non oggi probabilmente, ma prima o poi – qualcuno possa continuare a reagire al dolore non con l’odio e la vendetta, ma con la ricerca del dialogo e della riconciliazione.                         

Come cristiani condanniamo l’attacco violento e crudele del 7 ottobre e preghiamo per i parenti di tutte le vittime innocenti e per la liberazione degli ostaggi. Ma, oltre a questo, la cosa più importante che possiamo fare è quella di non smettere – anche e proprio quando sembra una cosa assurda – di predicare e vivere l’evangelo della riconciliazione.                       

Dall’odio nasce odio, la violenza chiama violenza. L’evangelo ci chiama invece a spezzare (come cercano di fare i genitori del Parents Circle) questa spirale mortale e mortifera e a scegliere un’altra strada, che è quella percorsa da Gesù: “Non rendete a nessuno male per male […]. Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene”.

Marco Gisola

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